Impunità. Attacco all’Iran: la logica del fatto compiuto

Impunità. Attacco all’Iran: la logica del fatto compiuto

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Più che lo scadere dell’ultimatum informale di 60 giorni, con cui Donald Trump aveva cercato di esercitare pressione sui negoziati, a creare la finestra di opportunità è stata la risoluzione approvata l’altro ieri dal consiglio direttivo dell’Aiea (l’agenzia Onu per l’energia atomica), consiglio del quale – particolare non irrilevante – fanno parte anche Cina e Russia

L’azione di guerra di Israele era attesa e temuta, nonostante il governo italiano, che recentemente ha ospitato a Roma i negoziati sul nucleare iraniano, rassicurasse circa l’assenza di segnali di un attacco imminente.

Più che lo scadere dell’ultimatum informale di 60 giorni, con cui Donald Trump aveva cercato di esercitare pressione sui negoziati, a creare la finestra di opportunità è stata la risoluzione approvata l’altro ieri dal consiglio direttivo dell’Aiea (l’agenzia Onu per l’energia atomica), consiglio del quale – particolare non irrilevante – fanno parte anche Cina e Russia. Nonostante l’enfasi sulla necessità di risposte diplomatiche, l’Aiea ha portato questioni ‘essenziali ed urgenti’ all’attenzione del Consiglio di Sicurezza Onu, evidenziando come l’Iran stia rapidamente accumulando uranio arricchito a livelli che non hanno pari fra i paesi sprovvisti di armi atomiche, e sottolineando l’infrazione di importanti disposizioni in materia di verifica e cooperazione. In breve, le scorte iraniane di uranio arricchito al 60% sono aumentate da 274,8 kg censiti a febbraio ai 408,6 kg odierni: un incremento ben oltre i limiti previsti dall’accordo firmato nel 2015 (e poi silurato da Trump). La risoluzione è arrivata mentre l’impegno negoziale americano, fortemente sostenuto dai paesi arabi e dagli europei, non stava portando risultati concreti.

Nonostante le prime fredde dichiarazioni del segretario agli esteri Marc Rubio, il fronte di guerra spalancato ora da Israele sovverte la logica negoziale, ma non calpesta una linea rossa tracciata da Trump. Si può considerare l’operazione come un’enorme provocazione militare in cui la logica del fatto compiuto, facendo i conti con i costi ingenti di una continua mobilitazione bellica, spinge gli Usa ad abbracciare ancora una volta l’opzione imposta da Israele per ridisegnare gli equilibri regionali e globali. Questo è vero sia nel caso in cui il martellamento bellico si riveli, giorno dopo giorno, un pieno successo (con la piena disarticolazione della catena di comando, la compromissione della capacità nucleare e l’indebolimento delle difese dell’Iran) sia nel caso in cui il regime degli Ayatollah, al contrario, si mostrerà ancora in grado di una massiccia risposta bellica contro Israele e alleati.

LE DIFESE AEREE iraniane (in larga parte russe) si sono dimostrate inefficaci, forse anche perché danneggiate negli attacchi sferrati da Israele mesi fa. Le ricostruzioni dell’attacco confermerebbero la rapida trasformazione degli scenari di drone war di cui abbiamo parlato sulle colonne de il manifesto. È plausibile che il Mossad si sia avvalso di infrastrutture segrete in territorio iraniano e che – con modalità non dissimili da quelle impiegate dagli ucraini nell’attacco a sorpresa contro la capacità nucleare russa – veicoli pesanti adibiti al trasporto di sistemi d’arma siano stati clandestinamente introdotti per neutralizzare le difese aeree e garantire agli aerei israeliani libertà d’azione. È anche plausibile che sia stata condotta un’operazione speciale per impiegare missili di precisione nelle vicinanze dei siti antiaerei nell’Iran centrale.

PER BILANCIARE la propria relativa inferiorità militare rispetto a Israele (potenza nucleare non riconosciuta) l’Iran ha sviluppato, soprattutto sotto la guida militare del generale Suleimani (poi eliminato da Trump), una propria formidabile capacità di risposta asimmetrica: in larga parte gruppi armati non statali saldati fra loro nel cosiddetto ‘asse della resistenza’. Oggi, nel momento del bisogno supremo, tale asse appare pressoché paralizzato: non c’è più un regime amico a Damasco, Hamas è impegnata a sopravvivere, Hezbollah dichiara che non risponderà per Teheran e il governo yemenita (gli Houthi) non pare in grado di rappresentare una minaccia esistenziale per Tel Aviv. Dall’inizio della guerra a Gaza, i paesi del Golfo hanno migliorato le proprie relazioni con Teheran. Tuttavia, non si spingeranno oltre dichiarazioni di condanna degli attacchi israeliani, data anche la fibrillazione per le basi americane sul proprio suolo. Due giorni fa, il ministro della Difesa iraniano dichiarava che, in caso di guerra «l’America avrebbe dovuto lasciare la regione perché tutte le sue basi sono alla portata dell’Iran».

La stima della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano è oggetto di acceso dibattito: c’è chi ritiene che sia degna di fede la fatwa pronunciata dal leader supremo Khamenei nel 2012 contro le armi di distruzione di massa; chi, come l’ex premier israeliano Ehud Olmert, ritiene che l’Iran sia già un paese nucleare-soglia e che non ci siano interventi che Israele può condurre per bloccare lo sviluppo di capacità nucleare militare; e chi, come la capa dell’intelligence Usa Tulsi Gabbard davanti al Senato americano, conclude che l’Iran non sta costruendo la bomba.

CIÒ CHE È CERTO è che, se l’obiettivo è l’adesione iraniana ad un meccanismo di controllo che impedisca diversioni militari e imbrigli le aspirazioni atomiche di alcuni esponenti del regime islamico, a meno di un radicale sovvertimento politico, tale obiettivo non avverrà nella forma di un’umiliante capitolazione con la pistola puntata alla tempia, attraverso la decapitazione dell’élite scientifica e militare, oppure – per quanto Israele smentisca – all’ombra della possibile eliminazione della leadership politica della Repubblica Islamica.

La storia ha più volte mostrato di preferire dinamiche carsiche, più che il calcolo lineare di chi pensa agli effetti domino della cosiddetta geopolitica. Il regime iraniano è probabilmente diviso e certamente avverso ad amplissime fette di società, ma i cambi di regime concepiti attraverso l’ingegneria sociale dei bombardamenti, con relativo strascico di vittime civili, non sono all’ordine del giorno.

IL PREZZO dell’ambizione di ridisegnare le mappe sulla base della diade amico-nemico, come ha dimostrato la follia neocon dell’invasione dell’Iraq nel 2003, è quasi inevitabilmente lo scatenarsi di violenze che, propagandosi e approfondendosi, contraddicono le aspettative che ne hanno alimentato l’inizio. Nessuno vuole più parlare oggi delle meraviglie della ‘guerra al terrore globale’, che di quelle aspettative si è nutrita, e ci ha riportato un nuovo regime talebano a Kabul.

La figura di Donald Trump che pone fine alle guerre attraverso un sapiente mix di negoziati e azioni decisive è una chimera molto pericolosa, tanto più per l’Europa, esposta sia sul fianco ucraino sia su quello mediorientale. È desolante come l’Italia, pavidamente muta su ogni azione di Israele, resti agganciata con pervicacia a questa illusoria proiezione.

DALLE DICHIARAZIONI del Segretario alla Difesa Usa Hegseth sulla conquista militare di Panama e Groenlandia, alla dinamite piazzata da Israele sotto i pilastri della legalità internazionale, emerge con nitidezza come lo smantellamento violento dell’ordine internazionale non riguarda solo il revisionismo russo o l’ambizione egemonica cinese. Gli scenari di guerra ci sono sempre più vicini. L’impaccio con il quale politici e media esitano ad applicare al governo Netanyahu le stesse categorie di lettura della politica, della legge e della guerra, che usiamo per qualunque altro stato, ci pongono una domanda: perché mai Netanyahu dovrebbe fermarsi, dal momento che fino ad oggi non ha incontrato reali ostacoli?

* Fonte/autore: Francesco Strazzari, il manifesto



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