Referendum. Tra centri e periferie, mappa a più voci del voto

Referendum. Tra centri e periferie, mappa a più voci del voto

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Ora che la sfida dei referendum è persa c’è il rischio di oscillare tra depressione e rimozione. Ma dalle sconfitte si ha sempre qualcosa da imparare. Il rapporto tra una classe «sfrangiata», radicamento e mobilitazione

E adesso? Ora che la sfida dei referendum è persa c’è il rischio di oscillare tra depressione e rimozione. Ma dalle sconfitte si ha sempre qualcosa da imparare. Per questo proviamo a interloquire con alcuni osservatori per decifrare l’esito delle urne. Ne viene fuori una prima diagnosi a più voci che investe il rapporto tra radicamento sociale e mobilitazione politica. E che interroga la lettura della composizione sociale e delle dinamiche produttive dei territori.

GETTA IL PRIMO sasso Francesca Coin, sociologa all’università di Lancaster che si occupa di lavoro e disuguaglianze. «Da questo voto traspare la depoliticizzazione della società – esordisce – Ma ci vedo anche la perdita del senso di solidarietà». Per Aldo Bonomi, fondatore e direttore del Consorzio Aaster e analista della mutazione postfordista da tempi non sospetti, «abbiamo bisogno di tenere assieme analisi della composizione sociale e soggettivazione, cioè il modo in cui il soggetto percepisce il discorso». Per farsi comprendere, Bonomi cita le ricerche sulla filiera dei metalmeccanici lombardi che realizzò con la Cgil negli anni Novanta.

«Capimmo che bisognava tenere assieme gli interessi materiali e il sentire – racconta Bonomi – Ce ne accorgemmo quando ci chiedemmo come mai gli operai iscritti al sindacato votavano Lega. Avremmo dovuto tenere conto di questo, come emerge dallo iato tra i voti sul lavoro e la cittadinanza. Bisognava tenere assieme lo sfrangiarsi della composizione sociale. All’epoca ci occupammo anche della società del rancore, quella che oggi si è trasformata nel labirinto delle paure, cui sono legati gli imprenditori politici della paura stessa».

«Spiace che queste cose debbano trovare spazio tra la violenza degli attacchi della destra e quelli che in parte vengono anche da sinistra – prosegue dal canto suo Coin – Abbiamo l’esigenza di non buttare il bambino con l’acqua sporca. Dopo trent’anni di politiche opposte i temi dei referendum devono restare a fare parte di una vera agenda di sinistra. Non bisogna fermarsi al primo fallimento, serve ricominciare a organizzarsi. Soprattutto al Sud, in quella zona del paese che evidentemente, e mi sento di dire a ragione, ha perso fiducia nella politica».

LORENZO ZAMPONI, sociologo alla Scuola normale superiore di Firenze e studioso del rapporto tra movimenti e partecipazione politica, parte dall’elemento territoriale. A un primo sguardo superficiale, pare che l’esito del referendum riproponga in qualche maniera la discrepanza tra aree interne e centri urbani già vista da anni laddove le città esprimono posizioni più progressiste. Ma dentro questo dualismo risalta un dato: la maggiore partecipazione al voto delle zone periferiche, meglio se caratterizzate da presenza migrante: nelle sezioni dei quartieri di San Salvario e Vanchiglia, a Torino, il voto sfiora il 60%, il doppio della media nazionale.

«Le differenze tra territori non si spiega più con la retorica della sinistra delle ztl – riflette Zamponi – Abbiamo visto che in tantissimi casi le periferie hanno votato più dei centri urbani. E allora accade la presenza delle strutture sociali e politiche, come in alcune periferie romane che hanno superato ampiamente il quorum, produce i suoi risultati».

Per Coin, il tema del meticciato da qui in avanti sarà sempre più decisivo: «C’è un evidente protagonismo delle seconde generazioni, che in molti casi stanno guidando una trasformazione – afferma – Nonostante tutto hanno assunti un ruolo da protagonisti, anche dal punto di vista culturale: agiscono per il cambiamento».

Tutto ciò rimanda al tema dello classe «sfrangiata» di cui parla Bonomi, il quale ci riporta alla struttura produttiva. «Bisogna contestualizzare questo voto dentro le nuove fabbriche – è il ragionamento – Cioè le piattaforme fuori dalle mura dell’impresa. Il nodo, dunque, non è il rapporto tra città e contado: le piattaforme sono fatte per tenere assieme territori differenti. Ecco perché i territori devono essere scomposti, ci sono le città dell’abbandono, le città medie e le aree metropolitane».

NEL PRIMO REPORT sui referendum, gli analisti dell’Istituto Cattaneo affermano che è «è azzardato proiettare il voto registrato in occasione di questa tornata referendaria su possibili equilibri elettorali futuri tra partiti e aree politiche». Zamponi segnala che i ballottaggi hanno tirato su l’affluenza e che anche dove ha vinto la destra hanno prevalso i sì. A Ortona, ad esempio, si doveva scegliere tra due candidati a sindaco di destra, ma l’esito del referendum non si discosta dalle percentuali nazionali. Qui ritorna il tema dell’importanza dell’insediamento: «I partiti che si oppongono al governo Meloni al momento non rappresentano i 27 milioni di persone che sarebbero serviti per vincere – dice – Ma attenzione: ciò non significa che lo facciano gli altri. Non dobbiamo dimenticare che la destra ha vinto questa partita solo non partecipando, impedendo che si svolgesse un dibattito nel merito delle questioni».

* Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto



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