La politica economica di Trump sfida l’ultimo tabù

La politica economica di Trump sfida l’ultimo tabù

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Essendo l’obiettivo di Trump arricchire i ricchi, per quale motivo Powell, che pure è un repubblicano da Trump nominato nel 2017, non lo asseconda? La risposta sembra difficile, ma non lo è

Lo aveva detto a Sintra, a inizio luglio, Jerome Powell: con i dazi, la ripresa dell’inflazione è inevitabile. Così hanno accertato i dati di metà mese: l’indice dei prezzi al consumo, a giugno, ha fatto registrare un incremento del 2,7% su base annua.

Dati che per Trump sono eccellenti, tanto che sui social è tornato a tuonare contro il chairman della Fed: «abbassa i tassi», con abbondanza di punti esclamativi. Dopo gli attacchi di metà aprile, e quelli di inizio luglio, si è consumato dunque un nuovo scontro tra poteri che, sulla carta, dovrebbero essere indipendenti.

Sono stati i dati, però, ancora una volta, a imporre a Trump la marcia indietro. Ogni volta che attacca Powell, infatti, il rendimento dei Treasury sale. Paradossalmente, però, scende il valore del dollaro, così come scende quello delle borse. Intendiamoci: il dollaro più debole è uno degli obiettivi della politica economica di Trump e dei suoi consiglieri. È un altro modo, oltre i dazi, per colpire l’export verso gli Usa, soprattutto ma non solo quello europeo, e per favorire quel processo di reindustrializzazione che la riduzione drastica delle tasse dovrebbe ulteriormente sollecitare.

Ma il peso dei Treasury, invece, con i rendimenti in salita, è insostenibile; troppo alto, infatti, è il debito pubblico a stelle e strisce. Per la terza volta, quindi, Jerome Powell la sfanga, Trump fa retromarcia, il licenziamento – impraticabile, in assenza di giusta causa – slitta in avanti.

Perché, questa vicenda, ha un’importanza capitale? Senz’altro perché testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, il disprezzo di Trump per i principi liberali: check and balance, indipendenza delle corti di giustizia e dell’istituzione economica per eccellenza, la banca centrale. Ma vi è qualcosa di più profondo, nell’autonomia delle banche centrali, relativo alla loro genesi.

La nascita nel 1694 della Bank of England è illuminante. Essa è il frutto di un patto tra la corona impegnata in guerra, a corto di circolante per sostenere l’impresa, e la borghesia in ascesa – della rendita fondiaria e immobiliare, dei mercanti e delle compagnie, della manifattura tessile. Nella sua storia del denaro, Felix Martin definisce tale patto «Grande Accordo Monetario». Pur di avere metalli preziosi, la corona delega una prerogativa politica decisiva, battere moneta. Al contempo, le pratiche creditizie già proprie della borghesia commerciale (per esempio, le cambiali) conquistano carattere pubblico; si afferma, così, una nuova «tecnologia di pagamento», la banconota.

Agli albori della modernità capitalistica vi è, dunque, un originale e sempre omesso rapporto tra banca e Stato: la prima, società per azioni privata, che nel tempo ottiene il monopolio dell’emissione di moneta legale (valida, cioè, per estinguere i debiti e pagare le tasse); il secondo che, indebitandosi, garantisce attraverso l’esazione delle tasse la possibilità della prima di stampare banconote, ovvero promesse di pagamento affidabili. Alla banca e allo Stato, affinché il meccanismo funzioni, si aggiunge il mercato finanziario, nel quale i titoli di Stato vengono commerciati producendo rendite. Intanto, tutelate dalla banca centrale, le banche commerciali inventano nuove tecnologie di pagamento, dai depositi e gli assegni fino alla contemporanea carta di credito.

Il succinto excursus storico serve a comprendere che non vi è capitalismo senza la natura anfibia della banca centrale: soggetto privato, indipendente, che però controlla un’istituzione pubblica, la moneta. Quella della moneta è una politica, ma i soggetti che se ne occupano non sono politici, sono tecnici, non rispondono alle pressioni democratiche. Il loro compito fondamentale è la stabilità dei prezzi, ovvero tutelare la moneta nella sua funzione di riserva di valore. Chi ha molto denaro (e quindi molto potere) deve essere sicuro che il suo denaro non perda valore nel tempo.

Si impone la domanda: essendo l’obiettivo di Trump arricchire i ricchi, per quale motivo Powell, che pure è un repubblicano da Trump nominato nel 2017, non lo asseconda? E ancora: perché, se Trump attacca Powell, aumentano le vendite di Treasury e il loro rendimento sale? La risposta sembra difficile, ma non lo è. Vi è un caso limite, improbabile ma non per questo impossibile, secondo il quale Alexandria Ocasio-Cortez viene eletta Presidente degli Stati Uniti. Non accade, ma Powell sa che, se accadesse e la Fed avesse intanto perso la sua autonomia, l’emissione di moneta sarebbe utilizzata per aumentare i salari, eliminare la disoccupazione, magari ridurre l’orario di lavoro, pubblicizzare la sanità, ecc.

Si tratta di un rischio che nessun banchiere centrale, tanto meno un repubblicano che per anni ha lavorato nelle banche di investimento, può permettersi.

* Fonte/autore: Francesco Raparelli, il manifesto



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