Stato di Palestina: «Il riconoscimento va bene, ma ora fermate Israele»

Stato di Palestina: «Il riconoscimento va bene, ma ora fermate Israele»

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La popolazione nei Territori occupati accoglie con favore i riconoscimenti dello Stato di Palestina, ma chiede misure concrete per mettere fine all’occupazione e fermare le azioni del governo Netanyahu

RAMALLAH. Nella sede del Medical Relief di Ramallah troviamo una forte agitazione. Ma non per i riconoscimenti dello Stato di Palestina, importanti ma in ritardo di anni, arrivati da diversi paesi occidentali guidati da Francia e Gran Bretagna. «Gli israeliani hanno appena bombardato la Samer Clinic, il nostro poliambulatorio a Gaza City, è terribile, quella struttura medica era fondamentale in questo momento» ci dice il dottor Mustafa Barghouti, presidente di questa storica Ong che da decenni garantisce servizi sanitari nei Territori palestinesi occupati. «Come faranno i nostri pazienti? Tra di loro ci sono malati oncologici, persone con gravi patologie, malattie croniche. Ora non hanno più nessuno a cui rivolgersi. Il mondo deve intervenire per salvare Gaza e la Palestina» aggiunge Barghouti, una delle voci più autorevoli della società civile palestinese in Cisgiordania.

La preoccupazione e lo sgomento che regnano nelle stanze del Medical Relief riassumono bene l’atteggiamento di gran parte dei palestinesi: soddisfatti per i riconoscimenti della comunità internazionale e, allo stesso tempo, consapevoli che sul terreno non cambierà molto. «Senza le sanzioni, il governo Netanyahu non fermerà la sua offensiva a Gaza» afferma Barghouti esprimendo un punto di vista condiviso da buona parte della sua gente. «Perché l’Italia non riconosce la Palestina?» domanda. «Proprio oggi (ieri) ci sono decine di migliaia di italiani che sfilano nelle loro città per i nostri diritti e contro l’assedio israeliano di Gaza e il massacro della nostra gente».

Nelle strade di Ramallah la vita scorre senza sussulti mentre all’Onu si scrive un’altra pagina sui diritti dei palestinesi. C’è stato qualche sit-in dopo gli annunci giunti domenica da Gran Bretagna e da altri tre paesi. A Ramallah decine di persone si sono radunate nei pressi del mausoleo di Yasser Arafat con bandiere palestinesi e cartelli con scritto «Grazie Francia» e «Grazie Gran Bretagna». Amal Al Malhi, una studentessa universitaria che incontriamo nella Piazza dell’Orologio, spiega che il passo compiuto da paesi occidentali è «una boccata d’ossigeno». Per una volta, aggiunge, «sentiamo che il mondo non ci ignora più, che ha finalmente compreso le nostre ragioni. Ma non basta. Mio padre era bambino quando si parlava per la prima volta di uno Stato palestinese. Io ho 22 anni e non l’ho ancora visto. Non basta che ci riconoscano, devono aiutarci a vivere liberi».

Azem, un commerciante di Ersal Street, è scettico nei confronti degli sviluppi diplomatici all’Onu. «Temo che per noi cambierà poco» afferma. «E comunque Israele ha sempre trovato un modo per punirci: demolizioni, arresti, blocchi delle strade. Finché il mondo non obbligherà Israele a fermarsi, i riconoscimenti rimarranno simbolici». Questi timori non sono infondati. Nella notte tra domenica e lunedì i soldati  hanno arrestato otto palestinesi durante diversi raid in Cisgiordania, incluso il campus dell’Università di Birzeit. A Nablus hanno fatto irruzione nel campo profughi di Balata e hanno arrestato Muhammad Hashash, uno dei prigionieri palestinesi scarcerati da Israele durante la tregua di inizio anno. Decine di arresti sono stati compiuti anche ad al-Mughayyir, a nord-est di Ramallah.

Si attende la reazione di Benyamin Netanyahu ai riconoscimenti dello Stato di Palestina. Domenica, mentre in coro i suoi ministri e con loro i leader dell’opposizione, incluso Yair Golan, capo di «Democratici», il partito erede dei Laburisti e del Meretz, si scagliavano contro i paesi europei e occidentali, Netanyahu ha rilanciato l’annessione di nuove porzioni della Cisgiordania e, minacciando la chiusura dei consolati dei paesi che hanno riconosciuto la Palestina, ha ribadito in un videomessaggio che «non ci sarà nessuno Stato palestinese a ovest del fiume Giordano» e ha garantito che Israele agirà «in pieno coordinamento con Washington» contro qualsiasi iniziativa diplomatica a favore dei palestinesi.

Il segretario di Stato americano Rubio, secondo alcune fonti, avrebbe dato il via libera a Israele per imporre la sovranità sulla Cisgiordania. Ma Netanyahu esita, non ha ancora deciso se fare ciò che gli chiedono da mesi i ministri dell’ultradestra Ben Gvir e Smotrich. Un’opzione, rivelata da Haaretz, è quella di modificare la classificazione dell’Area B, che costituisce il 20% della Cisgiordania, in Area C, quindi sotto il controllo totale israeliano. Smotrich ribadisce che presto farà crollare l’Anp di Abu Mazen, tornata a essere un punto di riferimento per i governi europei che si proclamano a favore dello Stato di Palestina e della soluzione a due Stati. «Lo farò attraverso lo strangolamento economico e l’annullamento delle garanzie fornite alle banche palestinesi che intrattengono rapporti con noi» ha promesso il ministro, impegnato a impedire che venga creato uno Stato palestinese. Intanto Hamas ha inviato una lettera a Donald Trump chiedendogli di garantire una tregua di 60 giorni a Gaza in cambio del rilascio di metà degli ostaggi detenuti, riportava ieri Fox News.

* Fonte/autore: Michele Giorgio, il manifesto



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