Ambiente e Beni Comuni

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IL COLLASSO DELL’ECOSISTEMA MONDO

Vivere in debito per sostenere i consumi. Sembrava essere il mantra dell’inizio del Terzo millennio, pronunciato da eminenti economisti come da capitani d’industria, perché in una fase storica di aumento dei prezzi e compressione dei salari l’unico modo per stare al passo con i tempi era ipotecare il futuro. La crisi economica e finanziaria successivamente esplosa negli Stati Uniti e propagatasi in tutto il mondo ha dimostrato quanto quell’approccio avesse i piedi d’argilla, e in fase di piena recessione almeno per i Paesi del Vecchio continente l’attenzione dei decisori politici e del cittadino comune sembra essere focalizzata solo su una parte del problema: debiti sovrani, default e spread, per misurare l’affidabilità finanziaria dei Paesi più problematici dell’area Euro.

Cresce la temperatura globale
Ma c’è un altro spread, ed un altro default, che rischiano di finire sotto traccia. Il primo è quello che misura il disallineamento tra la concentrazione media storica della CO2 e quella attuale. Dalle 260-280 parti per milione (ppm) misurate in campioni risalenti al periodo preindustriale, i dati attuali sono ben diversi: nel dicembre 2012 la concentrazione del biossido di carbonio ha toccato le 394,25 ppm rispetto alle 391,88 ppm dello stesso periodo del 2011 (NOAA, 2013). Una realtà che offre prospettive poco incoraggianti. Come ad esempio un aumento della temperatura globale oltre la soglia dei 2°C, uno scenario che fa preoccupare persino gli studiosi dell’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD, 2012).

Tendenze che contribuiscono ad un altro tipo di default, o se vogliamo essere più precisi di “collasso”. Quello dell’ecosistema Mondo che negli ultimi anni, nonostante la crisi economica e il fallimento delle politiche di indebitamento privato, non ha mai smesso di vivere sopra le proprie capacità, come hanno dimostrato studiosi come Mathis Wackernagel, presidente del Global Footprint Network, durante l’Earth Overshoot day, che misura anno dopo anno in quanti mesi l’umanità consuma le risorse che sarebbero necessarie per garantirle la sopravvivenza per un intero anno. Si è ormai passati dai 10 mesi, misurati nel 2000, ai quasi 8 mesi nel 2012 (Global Footprint Network, 2012).

Ya Basta! Non più passivi
Un modello di sviluppo insostenibile, che non ha punti di equilibrio con il sistema naturale, esseri umani compresi. Ma che sta cominciando a formare le prime crepe sia negli impatti visibili e concreti, sottoforma di inquinamento, di esaurimento delle risorse naturali, di estinzione di intere specie di viventi, sia nell’immaginario collettivo delle persone, che da semplici spettatori stanno lentamente diventando protagonisti dell’esigenza di cambiamento.

«Idle No More», gridano i movimenti dei nativi canadesi che dal novembre del 2012 si sono mobilitati contro leggi che consentirebbero l’ipersfruttamento delle risorse naturali con conseguente inquinamento e requisizione di ettari di terra.

«Non più passivi» potrebbe essere la traduzione immediata, che ricorda molto quel «Ya Basta!» che nel 1994 urlò un movimento di altri nativi, quelli messicani del Chiapas, contro il NAFTA (North American Free Trade Agreement, l’Accordo nordamericano per il libero scambio) che liberalizzando i mercati tra Canada, Stati Uniti d’America e Messico metteva de facto i piccoli contadini messicani a rischio di espulsione dal mercato.

Una reazione a un modello economico predatorio che viene da lontano, e che prende forme diverse a seconda dei territori e dei soggetti che la incarnano. Ma che, purtroppo, ha un minimo comune denominatore: la mancanza di ascolto da parte dei decisori politici, sia a livello locale che, ancor di più, a livello globale.

La Conferenza ONU e Rio+20
L’ultima Conferenza delle Parti Onu sul cambiamento climatico di Doha, che si è tenuta in Qatar nel dicembre 2012, è un chiaro sintomo del rischio di scollamento che c’è tra la diplomazia formale ed i problemi reali. Le parole di Sharan Burrow, segretaria generale dell’ITUC, sottolineano tutta la gravità della situazione. «Usciamo da questa conferenza», ha dichiarato, «domandandoci quando tornerà l’ambizione a questo tavolo negoziale. In un pianeta morto non ci sarà posto per nessun lavoro, né tanto meno per una transizione equa, con risultati come quello che abbiamo di fronte» (Burrow, 2012).

Del resto, la Conferenza in Qatar fu preceduta nel giugno del 2012 da un altro grande evento internazionale presentato dalle Nazioni Unite come una pietra miliare di un auspicato futuro green. Rio+20, il Summit Onu a 20 anni dal più celebre Earth Summit del 1992 di Rio de Janeiro, ci si aspettava ponesse alcuni punti fermi sul rapporto tra sostenibilità e business. Al contrario, il processo ha ricalcato l’ormai classica agenda “mercato-centrica”. «Approccio volontario e focalizzazione sulla deregolamentazione, invece che su norme stringenti», secondo Fairwatch, Ong osservatrice al vertice, «lo hanno fatto notare alcuni think thank neoliberal come World Growth, per loro Rio è stato un successo».

Le imprese, non solo quelle green, a Rio+20 hanno avuto un ruolo di primo piano. Eni, Enel e le grandi compagnie petrolifere o energetiche si sono ritagliate spazi di visibilità e di interlocuzione politica di altissimo livello, dimostrando ancora una volta, semmai ce ne fosse stato bisogno, della grande capacità di lobbying che le multinazionali hanno nei confronti di chi dovrebbe tutelare l’interesse pubblico.

La discutibile strategia energetica italiana
È proprio in quei mesi che prende corpo la Strategia Energetica Nazionale italiana (SEN): dopo un’attesa durata anni, e un percorso di confronto con la società civile, l’Italia si dà una prospettiva capace di mettere in campo investimenti per «15 miliardi di euro e circa 25.000 posti di lavoro», consentendo, secondo il documento del governo «un risparmio sulla fattura energetica di circa 5 miliardi di euro l’anno per la riduzione di importazioni di combustibili fossili»(Ministero dello Sviluppo Economico, 2012 b). Nonostante le criticità espresse soprattutto dalle organizzazioni ambientaliste sia sul corto respiro del documento (lo scenario arriva al 2020 quando i piani di sviluppo delle imprese parlano oramai almeno del 2030) sia sull’insostenibilità delle scelte in campo energetico soprattutto per le nuove estrazioni di petrolio e di gas, la SEN verrà varata agli inizi di marzo del 2013, provocando una serie di reazioni durissime. Legambiente sottolinea come «un governo dimissionario, e in carica solo per l’ordinaria amministrazione», si sia arrogato il diritto «di completare un atto strategico, travalicando le proprie competenze e senza coinvolgere il Parlamento (ormai sciolto) né nessuno degli interlocutori per dare trasparenza sulle modalità di recepimento degli esiti della consultazione» (Legambiente, 2013 b).

La SEN non riguarda solo l’approvvigionamento energetico ma, ovviamente, anche le fonti da cui questo viene garantito. I combustibili fossili non sono solo alla base delle emissioni di gas climalteranti, ma anche di sostanze che, sommate a quelle emesse dagli autoveicoli o dal riscaldamento domestico, rendono irrespirabile l’aria delle nostre città. È lo smog, sempre più al centro di politiche di intervento emergenziale, più che di prevenzione.

«A far scattare l’emergenza smog durante i mesi invernali» si legge sul dossier di Legambiente Mal’aria di città 2013, «sono sempre le polveri fini, ovvero il PM10 e il PM2,5 (particolato formato da particelle con dimensioni inferiori rispettivamente ai 10 e ai 2,5 micron» che, proprio per le loro piccole dimensioni risultano molto pericolose per la salute dei cittadini. Una situazione che ha portato il 19 dicembre 2012 la Corte di Giustizia europea a condannare l’Italia per non aver evitato il superamento dei limiti dettati dall’Unione Europea dei PM10 per il biennio 2006 e 2007.

Il conflitto tra salute e lavoro
Ma al centro del conflitto tra sviluppo, ambiente e salute campeggia, nel Bel Paese, la questione Ilva di Taranto. Interventi della magistratura ordinaria, forte conflitto tra i lavoratori schiacciati tra l’esigenza di mantenere un posto di lavoro ed il diritto alla salute per sé e per i propri figli, una questione di cronaca che rischia di approdare in uno scontro tra poteri. Questo è il Caso Ilva che, lungi dall’essere risolto, sta radicalizzando le situazioni, considerando le oltre 6 mila richieste di cassa integrazione presentate nel marzo del 2013 e le numerose istanze di risarcimento per le vittime dell’inquinamento del gruppo siderurgico, che si stanno accumulando sulle scrivanie della Procura.

È l’annosa questione di come uno sviluppo industriale e produttivista, sia in grado di mantenersi in equilibrio con le comunità umane e l’ambiente. Se l’inquinamento atmosferico può essere un buon indicatore delle tendenze generali, per quanto riguarda l’Italia è necessario affiancare anche il tasso di cementificazione e, conseguentemente, di rischio idrogeologico dovuto all’eccessiva infrastrutturazione.

Il territorio ferito
Secondo le ricerche condotte dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, in Italia la stima del consumo di suolo pro capite a causa della cementificazione è passata da 170 mq/abitante all’anno nel 1956 ai 343 mq/abitante all’anno nel 2010, con una stima della media del consumo di suolo che è passata dal 2,8% del 1956 al 6,9% del 2010. Dati che mostrano anche l’altra faccia dell’Italia, quella dell’incapacità ad adattarsi ad un clima che cambia, e che assume sempre più il volto delle alluvioni disastrose e del dissesto del territorio. Un situazione denunciata persino dall’allora ministro dell’Ambiente Corrado Clini, anticipando la presentazione di un piano di azione «che prevede investimenti per 40 miliardi in 15 anni e che tiene conto della nuova situazione climatica»; la quale, secondo il ministro, «negli ultimi vent’anni ha visto il progressivo intensificarsi degli eventi estremi con un cambio di intensità».

Serve una rivoluzione verde
Quello che emerge, da quest’Italia a rischio default anche ambientale, è l’esigenza di una politica di transizione non più settoriale, ma omnicomprensiva: spazio alle rinnovabili, chiusura progressiva con i combustibili fossili, una nuova e sostenibile gestione del territorio e della mobilità urbana, attenzione ai mercati di prossimità e a un’agricoltura ecologica e locale. In poche parole, una vera e propria rivoluzione verde. Gli spazi ci sarebbero? Secondo un Rapporto congiunto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro assieme al Programma ambientale della Nazioni Unite, la crescita dell’economia green, con specifico riferimento alle energie rinnovabili, avrebbe garantito oltre 5 milioni di posti di lavoro nel mondo. Numeri che risulterebbero ancora maggiori ampliando al settore dei servizi eco sistemici che nella sola Unione Europea avrebbe raggiunto i 14,6 milioni di occupati, tra diretti e indiretti, per ciò che riguarda la protezione della biodiversità e il recupero di foreste ed ecosistemi (ILO, 2012).

Tutto bene quello che finisce bene? Dipende, vale la pena fare attenzione e distinguere tra la vera economia verde e il semplice green marketing. Ma più sarà alta la capacità di sostenere esperienze sincere e realmente innovative, più la transizione verso un futuro più ecologico e solidale avrà radici concrete e potrà garantire, anche per le generazioni che verranno, una vita degna di essere vissuta.

La Primavera dei movimenti
Intanto, dal 26 al 30 marzo del 2013, migliaia di persone e centinaia di organizzazioni si sono date appuntamento a Tunisi per la nuova edizione del World Social Forum. Una location diversa, particolare, che guarda alle ultime rivoluzione arabe sviluppate sull’onda della libertà e della democrazia per tutte e per tutti, ma nate a causa di una crisi economica e finanziaria che stava impedendo alle persone di acquistare i beni alimentari di prima necessità.

Diversi gli assi su cui il Forum si è concentrato, tutti con l’obiettivo di riconsolidare i rapporti tra le organizzazioni e i movimenti di base per una rinascita dal basso dell’alternativa sociale. I temi al centro della discussione rimandano alle grandi crisi moderne: economia e finanza, democrazia e guerre, ambiente e clima. In particolare, il WSF di Tunisi vede per la prima volta la nascita di uno spazio autorganizzato sulle questioni climatiche, il cosiddetto Climate Space, in cui per cinque giorni si sono alternati seminari, assemblee e strategy meeting per consolidare un movimento sulla giustizia climatica e sociale che già nel 2009 a Copenhagen aveva dimostrato la sua efficacia.

«Cambiamo il sistema, non il clima», questo il mantra che ha attraversato i lavori dello spazio climatico, con l’ambizione di collegare sempre più questione sociale ed ambientale, in vista di appuntamenti internazionali come la prossima COP delle Nazioni Unite sul clima, in programma a Varsavia nel novembre 2013, e la ministeriale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, programmata per il mese successivo a Bali, in Indonesia.

 

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