La svolta autoritaria nei Paesi del Gruppo di Visegrád

by Massimo Congiu * | 12 Febbraio 2021 10:37

Loading

Da circa cinque anni a questa parte, in modo particolare, i Paesi del Gruppo di Visegrád (V4, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia), sono protagonisti di un confronto teso con Bruxelles, di cui criticano l’azione politica e quella che descrivono come ingerenza negli affari interni degli Stati membri.

Cinque anni sono passati da quel 2015 che aveva visto i flussi migratori verso l’Europa assumere proporzioni ragguardevoli. È in quel contesto che il V4 ha ripreso slancio e ha trovato al suo interno nuove forme di convergenza e cooperazione.

  1. Il percorso del Gruppo V4

Quello di Visegrád è un accordo regionale siglato il 15 febbraio 1991 da tre Paesi (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia), per dar luogo a un rapporto di collaborazione nei settori economico, culturale, energetico, militare, e promuovere l’integrazione europea unitaria degli Stati firmatari divenuti quattro nel 1993, con la scissione della Cecoslovacchia in due entità statuali indipendenti. Successivamente, questa formula ha mostrato di non funzionare in modo pienamente soddisfacente, così i membri del Gruppo sono passati ai rapporti diretti con Bruxelles per gestire il loro percorso verso l’adesione all’Unione Europea, avvenuta, di fatto, il primo maggio del 2004.

La cooperazione fra questi Stati è comunque proseguita soprattutto nei campi della cultura, dell’istruzione, delle scienze e dell’economia. Nel 1999 è stato costituito il Fondo Internazionale di Visegrád, che è un fondo di investimento con sede a Bratislava con un budget annuale fissato a tre milioni di euro sulla base di un’intesa raggiunta dai capi di governo dei quattro. Gli esperti sottolineano che questi Paesi mostrano dei tassi di crescita economica interessanti che, secondo le statistiche esistenti, nel 2018 sono risultati compresi fra il 3% e il 3,8%. La questione, però, merita un discorso a parte riguardante i meccanismi tutt’altro che equi della distribuzione della ricchezza prodotta.

In effetti, a lungo, il rapporto di cooperazione all’interno del V4 è stato portato avanti un po’ sottotraccia dai Paesi del Gruppo, perdendo così centralità nella loro agenda politica. Monitorati dalla Commissione Europea, sono stati giudicati idonei all’adesione all’Unione per aver saputo realizzare standard democratici ed economici soddisfacenti. Come già precisato le loro candidature venivano sostenute singolarmente senza più meccanismi di mutuo supporto per agevolare il processo. A livello di opinione pubblica era diffusa in questi Paesi la persuasione che entrare nell’UE fosse inevitabile, che non si potesse fare altro per poter contare di più e accedere a nuove forme di sviluppo. A tale punto di vista aveva contribuito largamente la campagna dei governi operanti all’epoca nel V4, spesso coalizioni di centro-sinistra, che non si erano spesi troppo per spiegare l’essenza di questo progetto politico, limitandosi a presentarlo come condizione sine qua non per una svolta in positivo. Ma insieme a questa persuasione c’era anche il timore di entrare a far parte della grande famiglia europea come parenti poveri, di seconda categoria, destinati a ricoprire posizioni subordinate al cospetto dei Paesi fondatori e di quelli più ricchi dell’Europa occidentale. Forse, all’epoca, alle istituzioni europee è sfuggito questo particolare; forse le medesime non hanno tenuto sufficientemente conto di quanto il vissuto storico dei nuovi ingressi avrebbe influenzato i rapporti con i poteri centrali dell’UE. Eppure, qualche segnale c’era già.

  1. Orbán: Patria, Chiesa e famiglia

Queste dinamiche sono cominciate ad apparire chiare soprattutto cinque anni or sono, si diceva, quando, contestualmente all’emergenza migranti, i Paesi del V4 hanno cominciato a far causa comune per rivendicare forme diverse di gestione della crisi e insieme a indicare nuovi percorsi di coesione europea o supposta tale.

In tutto questo, va tenuto conto del ruolo svolto già in precedenza dal primo ministro ungherese Viktor Orbán nella critica all’UE. Ininterrottamente al potere dal 2010, principio ispiratore di un progetto politico volto alla realizzazione di un sistema sempre più dirigista, sempre più in grado di controllare un po’ tutte le manifestazioni della vita pubblica del Paese, Orbán è visto da tempo come un pericolo per lo Stato di diritto. In questa veste ha più volte dovuto rispondere, in sede comunitaria, di provvedimenti e atti politici intrapresi dal governo di cui è capo, sostenendo il principio che ogni Stato è sovrano e che nessun potere esterno ha il diritto di ingerire nei suoi affari interni. Il primo gennaio del 2012 è entrata in vigore la Legge Fondamentale, ossia la nuova Costituzione ungherese caratterizzata da un testo che esprime una concezione autoritaria, nazionalista e conservatrice della vita dello Stato e del rapporto fra cittadino e istituzioni. Essa individua nella patria, nella chiesa e nella famiglia i valori fondanti dello Stato ungherese e afferma una visione del mondo che è tutto fuorché aperta, inclusiva e tendente al multiculturalismo.

Per Orbán la Legge Fondamentale è la Costituzione di ogni vero ungherese; per l’opposizione rappresenta solo una parte del Paese ed è profondamente divisiva come il sistema che l’ha concepita.

Già nei suoi primi anni di governo Orbán ha dato la sensazione di volersi mettere alla testa di un ipotetico movimento di nazioni impegnate nel conseguimento della loro piena sovranità, della loro indipendenza da poteri esterni, nella realizzazione del loro destino. «Un giorno l’Europa seguirà l’esempio dell’Ungheria cristiana», aveva detto il premier danubiano anni fa, presentandosi come apripista in questo processo di affrancamento dalle ingerenze dell’Unione. Personaggio fondamentalmente legato al potere, Orbán gioca da tempo la carta del riscatto nazionale, della costruzione di un’Europa di nazioni e di patrie, ciascuna con la sua specificità culturale e la sua identità, e in questo ha trovato condivisione con i leader più nazionalisti del V4 autori di uno strappo da Bruxelles che sa di voglia rivincita della periferia dell’Unione nei confronti del centro rappresentato dagli Stati fondatori e, in generale, da quelli più influenti sui piani politico ed economico.

Il gruppo vede maggiormente impegnate su questo fronte l’Ungheria e la Polonia, Paesi legati da lunghi e saldi rapporti di amicizia e simpatia reciproca. Budapest e Varsavia appaiono come elementi di punta all’interno del V4, nel confronto teso portato avanti con l’UE. Talvolta apparentemente più defilate, la Slovacchia e la Repubblica Ceca, seguono comunque un percorso che le accomuna agli altri due membri del V4 per la difesa dei loro interessi economici e politici. Nel contesto dell’emergenza migranti, i quattro hanno espresso all’unisono il loro forte dissenso alla gestione comunitaria della crisi, affermando che Bruxelles non aveva il diritto di imporre a nessuno Stato membro di ospitare migranti e profughi, visione condivisa da tutti i cosiddetti sovranisti europei. A ciò si è aggiunta l’agitazione dello spauracchio di un’Europa minacciata di estinzione causa l’arrivo in massa di migranti musulmani agevolato dalla tecnocrazia di Bruxelles in combutta con manipolatori finanziari alla George Soros e con le mafie che trafficano in esseri umani.

  1. Fondi europei e accoglienza dei migranti

I Paesi del V4 hanno respinto il principio, da essi definito ricattatorio, che vincola l’erogazione dei fondi europei alla condizione di ospitare migranti e profughi senza sentire preventivamente il parere dei parlamenti nazionali e delle popolazioni interessate. Il rifiuto di tale criterio ha prodotto, alla fine, delle conseguenze, in quanto nell’aprile 2020 la Corte Europea di Giustizia (CGUE) ha condannato l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca per essersi rifiutate di ospitare migranti che erano in attesa di ricollocazione dall’Italia e dalla Grecia nel 2015, quando i flussi verso il Vecchio Continente avevano raggiunto dimensioni considerevoli.

La sentenza quindi c’è stata, ma i leader dei Paesi sanzionati hanno mostrato di non darvi troppa importanza e di considerarla, tutt’al più, il prezzo già preventivato del loro impegno volto a indicare la strada verso un’Europa di Stati liberi e pienamente sovrani. E quanti, all’interno del V4, si sentono particolarmente in linea con il pensiero di Orbán, condividono l’ideale di un’Europa di nazioni che si contrappone al progetto federalista, che secondo il premier ungherese ha fallito prima ancora di essere realizzato. Nella loro retorica l’Unione Europea viene vista come un superstato sovranazionale irrispettoso delle volontà dei Paesi membri e del loro diritto alla piena autogestione. Viene quindi respinto qualsiasi vincolo all’erogazione dei fondi di coesione, così importanti soprattutto nel caso di economie non proprio autosufficienti come quelle dei Paesi dell’Europa centro-orientali entrati a far parte dell’Unione fra il 2004 e il 2013.

Con tali somme i membri del V4 hanno realizzato consistenti investimenti nei rispettivi Paesi, ma in questi anni sono state numerose le denunce interne riguardanti modalità non trasparenti di gestione delle stesse e di casi di connessioni tra mondo politico e criminalità, con risvolti talvolta anche fatali per chi ha indagato su questo argomento.

  1. Il caso di Ján Kuciak

Pensiamo ad esempio all’uccisione del giornalista slovacco ventisettenne Ján Kuciak nel 2018, e della sua compagna Martina Kušnírová, trovati entrambi privi di vita nella casa del giovane, che stava indagando sulla corruzione e su presunti collegamenti fra la ’ndrangheta e figure di spicco del mondo politico slovacco. Ne è conseguito un terremoto che ha portato a una serie di dimissioni nel governo guidato da Robert Fico (SMER, socialdemocratico) e quindi alla caduta dell’esecutivo. Pensiamo alla figura del primo ministro ceco Andrej Babiš, che gli anni scorsi è finito al centro di accertamenti per una serie di irregolarità finanziarie e per uso improprio dei fondi europei. Babiš è un potente imprenditore il cui nome è legato al gruppo Agrofert ed è criticato anche per avere nelle sue mani un’eccessiva concentrazione di potere mediatico; risulta essere il secondo uomo più ricco del Paese ed è fondatore e leader del partito Ano 2011, un soggetto politico anti-establishment che nutre diffidenza nei confronti dell’Unione Europea e intende tutelare gli interessi dei cittadini qualunque con l’illusione di far guerra alla casta politica. Pensiamo poi anche all’Ungheria e alle copiose testimonianze di usi non ortodossi dei fondi europei gestiti, nella maggior parte dei casi, secondo i critici, da oligarchie legate alla figura del primo ministro. Sarà anche interessante notare che, secondo quello che è al momento l’ultimo Rapporto di Transparency International (TI), l’Ungheria è risultata essere nel 2019, insieme alla Romania, il Paese più corrotto dell’UE. Peggio di loro avrebbe fatto soltanto la Bulgaria. Il Rapporto sostiene che la corruzione è diventata parte integrante del sistema, non soltanto un suo effetto collaterale, cosicché nel 2019 lo Stato danubiano ha occupato la settantesima posizione della classifica stilata da TI in cui trovano posto 180 Paesi.

Le accuse di gestione irregolare dei fondi comunitari coinvolgono anche il settore agricolo. Infatti, secondo indagini recenti, una quota considerevole dei finanziamenti che l’UE destina annualmente ai piccoli agricoltori, è finita o finisce tuttora in possesso di oligarchi vicini ai governi di Paesi come la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Bulgaria. Questi meccanismi sono la negazione della democrazia economica e del principio di equa distribuzione di ricchezze e opportunità. Gli esecutivi interessati negano l’esistenza di questi sistemi di gestione dei fondi che sono diventati un po’ un business.

  1. Il rispetto dello Stato di diritto

All’interno del V4 le critiche e le accuse nei confronti dell’UE si sprecano, così come il rifiuto di accettare doveri e incombenze che fanno parte dell’essere membri a pieno titolo dell’Istituzione. I medesimi non mettono però in discussione il loro diritto di ricevere questi fondi considerato sacrosanto. In linea di massima, parliamo di Paesi, come l’Ungheria, il cui contributo al bilancio comune è inferiore alle somme ricevute. Ma, come già precisato, le leadership del V4 respingono ogni vincolo all’ottenimento dei fondi di coesione: quello riguardante l’obbligo di ospitare migranti e profughi, e quello di garantire il rispetto dello Stato di diritto. Orbán rifiuta questa condizione semplicemente perché non riconosce autorità esterne in grado di valutare la salute dello Stato di diritto in Ungheria e non accetta lezioni di democrazia da nessuno. Nel luglio 2020 il primo ministro ungherese ha fatto scrivere una mozione contenente l’obbligo per il governo di accettare il bilancio comunitario per il periodo compreso fra il 2021 e il 2027 e il Recovery Fund, previsto per i Paesi colpiti dal nuovo Coronavirus a patto che sussistano alcune condizioni. Tra esse quella di non subordinare l’erogazione dei fondi di coesione al rispetto dello Stato di diritto.

Il fatto è che l’Ungheria e la Polonia, in particolare, sono finite sotto la lente degli “inquirenti” comunitari per gravi violazioni dello Stato di diritto. Il che ha portato a mettere in moto i meccanismi che potrebbero portare all’attivazione dell’Articolo 7 del Trattato di Lisbona previsto per i Paesi membri che si rendano responsabili di pesanti deviazioni dagli standard di democrazia auspicati dall’Unione Europea e che può portare alla privazione del diritto di voto nelle istituzioni europee. Il ricorso a questo strumento era già stato invocato nel 2014, nei confronti dell’Ungheria dall’eurodeputato portoghese verde Rui Tavares, poi la cosa non ha avuto praticamente seguito. Più recentemente, le istituzioni comunitarie hanno intrapreso un percorso caratterizzato da maggior decisione nel trattare i casi rappresentati da questi due Paesi.

Il primo dei due a divenire oggetto di una procedura sanzionatoria è stato la Polonia. Il fatto risale al dicembre del 2017, quando la Commissione Europea ha annunciato di aver dato il via alle procedure necessarie per l’applicazione dell’Articolo 7 nei confronti di Varsavia per l’approvazione di leggi tali da minacciare pesantemente, secondo Bruxelles, lo Stato di diritto. In questo modo la Commissione Europea ha fatto un passo mai compiuto prima nella storia dell’Unione. Nel caso in oggetto si parla, più precisamente, di 13 leggi adottate in Polonia in quegli ultimi due anni e mezzo che, secondo le autorità comunitarie, comportavano seri rischi per la tenuta della democrazia nel Paese, in quanto capaci di condizionare l’attività della Corte costituzionale, della Corte suprema e dei tribunali polacchi. Da considerare anche che, in quello stesso mese di dicembre del 2017, il presidente polacco Andrzej Duda, aveva firmato una legge che poneva la Corte suprema e altri organi giudiziari sotto il controllo diretto del governo del PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e Giustizia), partito conservatore e nazionalista al potere dal 2015.

Le autorità europee seguivano l’evoluzione dei fatti polacchi dal novembre di quell’anno mantenendo i contatti con quelle polacche. Successivamente, la Commissione Europea pubblicava quattro raccomandazioni al fine di prevenire qualsiasi minaccia allo Stato di diritto lamentando, però, di non aver ricevuto risposte soddisfacenti da parte del governo di Varsavia. Come già precisato, quest’ultimo è al potere dal 2015 e ha adottato provvedimenti simili a quelli nel frattempo già presi dal sistema di Orbán, tornato al governo cinque anni prima e da allora ininterrottamente alla guida del Paese.

  1. Il Rapporto Sargentini

Successivamente è stata la volta dell’Ungheria nel caso della quale il meccanismo che prevede in prospettiva l’attivazione dell’Articolo 7 è stato attivato col Rapporto stilato da Judith Sargentini, all’epoca eurodeputata olandese verde. Esaminando diversi aspetti riguardanti la politica interna ungherese, il testo sottolineava la continua minaccia portata dal governo Orbán allo Stato di diritto ed è stato accolto dalla risoluzione della Commissione Libertà Civili (LIBE) del Parlamento Europeo, che ha chiesto agli Stati membri di attivare la procedura di sanzioni prevista dall’Articolo 7.

La reazione del governo ungherese è stata prevedibile, volta a presentare in patria il dossier della Sargentini come “Rapporto Soros” e la richiesta di attivazione dei meccanismi legati all’Articolo 7 come un attacco all’intera nazione ungherese. Per Orbán la tecnocrazia liberale di Bruxelles ha voluto mettere sotto pressione l’Ungheria per far cambiare la politica anti-immigrazione del suo governo, la stessa Sargentini è stata descritta a sua volta come un agente del finanziere George Soros. Quindi, ancora una volta, l’apparato propagandistico dell’esecutivo ungherese ha provveduto a distorcere il senso delle cose e ha cercato di suscitare l’indignazione popolare a fronte di un preteso tentativo, da parte dell’UE, di sanzionare un’intera nazione solo per aver avuto il coraggio di fare le sue scelte. Scelte, peraltro, non condivise da tutta la popolazione ungherese e stigmatizzate, come nei casi della politica anti-immigrazione e delle misure restrittive in ambito mediatico, dall’opposizione partitica e sociale. Di fatto, anche in questo caso, ci troviamo di fronte a operazioni propagandistiche che alimentano il vittimismo e il risentimento popolare nei confronti della comunità internazionale e, con una serie di interventi che comprendono anche la riscrittura dei testi scolastici, inibiscono lo sviluppo del senso critico nelle persone.

Diversi intellettuali di questi Paesi parlano di mancanza di una tradizione democratica dovuta a un certo vissuto storico che ha portato le popolazioni interessate ad avere poca dimestichezza con gli strumenti della democrazia partecipativa. C’è anche una tendenza diffusa ad affidarsi all’uomo forte di turno nella speranza che vengano ripristinati ordine e garanzie in termini di assistenza sociale. Questa delega esclude di fatto una partecipazione politica e civile autentica che, del resto, questi sistemi scoraggiano in ogni modo. L’invito è a non occuparsi della cosa pubblica in quanto c’è un sistema che provvede a tutto: l’unico contributo popolare richiesto è il voto a favore in occasione dei test elettorali. In questi Paesi, però, ci sono anche realtà che criticano tali meccanismi e ritengono necessaria la realizzazione di una coscienza critica, a livello di opinione pubblica, per contribuire a un cambiamento concreto basato sulla partecipazione popolare e su un’assunzione di responsabilità individuale e collettiva.

 

  1. La divisione dell’elettorato e della società

Le recenti elezioni presidenziali polacche alle quali ha prevalso, anche se di poco, per un secondo e ultimo mandato Andrzej Duda, uomo del PiS, hanno confermato l’esistenza di un elettorato diviso, in sintesi, tra l’attivismo cittadino della società civile, progressista ed europeista, e il conservatorismo rurale di matrice cattolica, particolarmente sensibile alla propaganda nazionalista e agli inviti a difendere il Paese da pericoli che vengono sempre dall’esterno. Questi sistemi di potere non fanno che alimentare la sindrome dell’accerchiamento. La retorica dei loro leader, intrisa di complottismo, agita spauracchi e diffonde paura quando non ostilità nei confronti di chi è diverso o di tutto ciò che suona estraneo ai valori nazionali e alle identità che tali governi affermano di proteggere.

Fresco di pieni poteri attribuitigli, senza limiti di tempo, durante la crisi sanitaria legata al Covid-19, Orbán è un uomo politico che continua a vestire i panni di unico leader ungherese in grado di difendere i valori nazionali. Il suo partito Fidesz è tuttora sospeso dal Partito Popolare Europeo (PPE) per incompatibilità di vedute in termini di Europa e di democrazia. Il premier danubiano è autore di proclami in cui critica i popolari europei per essere diventati sempre più liberali, sempre più di sinistra, ma non sembra avere fretta di divorziare da loro. La sensazione è che voglia restare nel PPE per cambiarlo, se possibile dall’interno, spostandone l’asse politico a destra in senso nazionalista. Con gli altri leader sovranisti del V4 rivendica la diversità dei Paesi dell’Europa centro-orientale da quelli occidentali. Una diversità culturale, che si manifesterebbe a livello di sensibilità e visione delle cose, complice un’esperienza storica che non accomuna questa parte d’Europa a quella dei Paesi fondatori dell’UE. Il primo ministro ungherese afferma, pertanto, che non potrà esservi collaborazione e dialogo fra queste due componenti del Vecchio Continente fino a quando i Paesi occidentali avranno la pretesa di imporre i loro valori a quelli centro-orientali. In questo modo viene messo in discussione anche il concetto di democrazia e lo si pone in relazione a particolari realtà culturali forgiatesi attraverso un certo vissuto storico. Come dire che ciò che per l’UE è antidemocratico non lo è per i seguaci di Orbán, di Jarosław Kaczyński. Che ciò che a Bruxelles viene considerato xenofobo non lo è per l’attuale presidente ceco Miloš Zeman, che non fa mistero della sua ostilità all’idea di accogliere migranti musulmani. Si tratta di posizioni che in tutti i Paesi del V4 hanno dato vita a spaccature sociali, in termini di opinione pubblica.

Le speranze progressiste si concentrano sulle società civili in formazione nelle realtà in oggetto e sulla loro capacità di stimolare una voglia diffusa di cambiamento basata sulla volontà dei cittadini di diventare maggiormente protagonisti della loro vita. La sensazione, però, è che il percorso sia ancora lungo e che comunque sarà necessaria un’opera di ricostruzione e una bonifica, a fronte dei veleni sparsi da certa propaganda che richiama alla mente le fasi più oscure della storia contemporanea europea.

*****

* Dal 18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020, “Il virus contro i diritti”, a cura di Associazione Società INformazione.

L’edizione italiana, Ediesse-Futura editore, in formato cartaceo può essere acquistata anche online: qui
L’edizione internazionale, in lingua inglese, Milieu edizioni, può essere acquistata qui in cartaceo e qui in ebook

Post Views: 654

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2021/02/la-svolta-autoritaria-nei-paesi-del-gruppo-di-visegrad/