Finanza e derivati otto volte più forti dell’economia reale

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Oggi il rischio è lo stesso: i moderni cavalli di Troia non sono più di legno e hanno nomi ben meno mitologici: si chiamano credit default swap, spread, Etf, Borse, derivati, volatilità . Ma rischiano di avere lo stesso effetto distruttivo: insinuarsi nell’economia reale e, alla lunga, minarne le fondamenta. Come cavalli di Troia. O, per cambiare paragone, come Ufo pronti ad invadere la Terra.

Il motivo è presto detto: sono, come si vede nella grafica, molto più grandi dell’economia reale. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95mila miliardi di dollari, le Borse di tutto il mondo 50mila miliardi, i derivati 466mila miliardi. Tutti insieme (e stiamo escludendo valute e quant’altro), questi mercati sono otto volte più grandi della Terra: della ricchezza prodotta da industrie, agricoltura, servizi. È per questo che, con mille meccanismi, riescono a condizionare con il loro isterismo il mondo reale. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali economici, ma non è più così: ormai li determinano.

Il posizionamento 

Per capire come funzionano bisogna fare un passo indietro. Tutto inizia quando la Grecia entra in crisi, seguita da Irlanda e Portogallo. Questo mina ben presto la fiducia degli investitori internazionali: non tanto per il peso di questi Paesi (che contano poco nell’economia europea), ma per la totale incapacità  dell’Unione europea di reagire. I grandi fondi e le grandi banche mondiali iniziano così ad alleggerire i loro investimenti su questi paesi, ma risparmiano in parte l’Italia: il Belpaese è abbastanza periferico per consentire loro di tenere un’esposizione sul Sud Europa, ma abbastanza solido per non rischiare troppo.

Per fare tutto questo, e per guadagnarci anche, ci sono mille modi. Tanti giochetti finanziari. «Uno era di vendere Spagna sui mercati dei titoli di Stato e di comprare Italia», spiega un operatore. Un altro – ben più popolare – era di vendere Italia e comprare Germania. Questo si poteva e si può fare con i titoli di Stato veri e propri, oppure con i loro “cloni”: i credit default swap (Cds), polizze che servono per assicurarsi contro il crack di un Paese. Un’altro giochino è quello chiamato carry trade: i grandi investitori prendono in prestito denari a tassi bassi per comprare titoli (anche BTp) con tassi più elevati. Oppure ci sono gli Etf: strumenti che replicano pedissequamente gli indici azionari o obbligazionari, con la possibilità  di ampliarne i movimenti. Se si azzecca l’intuizione, si può guadagnare il doppio o il triplo. Su tutti gli investimenti, infine, si può sempre costruire una “leva”: un ulteriore moltiplicatore di guadagni e di perdite. Le vie della finanza sono infinite.

L’invasione 
Il problema è che poi il clima è peggiorato in Europa. Alla crisi di Grecia, Portogallo e Irlanda, si è aggiunta un’aggravante: l’economia ha iniziato a rallentare. Questo ha fatto scattare il panico in molti investitori: se la congiuntura frena, per gli Stati (Italia in primis) sarà  più difficile rimborsare i debiti. Subito sono iniziate le vendite: in Borsa, sui bond, sui derivati. Chi in precedenza aveva imbastito giochi speculativi ha dovuto subito smontarli: chi, per esempio, vendeva Spagna e comprava Italia ha iniziato a fare l’opposto. E ha continuato a comprare Germania, cioè Bund.

Mercati finanziari così grandi permettono di aggiustare il tiro in poco tempo. Chi può, vende titoli di Stato. Altrimenti scarica azioni, per esempio quelle italiane: qualunque titolo è ormai considerato rischio-Stato. Altrimenti fa lo stesso attraverso i credit default swap: compra polizze assicurative e si protegge dal rischio Italia. Oppure usa i futures. O i cari amici Etf. Morale: neanche il tempo di accorgersene e crolla tutto.

Le conseguenze 
Tutto questo ha effetti diretti sul destino di interi Paesi. Se i rendimenti dei titoli di Stato salgono troppo, che sia giusto o sbagliato non importa: per i Governi in ogni caso diventa prima oneroso, poi difficile infine impossibile rifinanziare il proprio debito. E se i Governi non riescono più a collocare titoli di Stato, vanno in default perché non possono più rimborsare i debiti in scadenza: evento già  sfiorato da Grecia, Portogallo e Irlanda. Se accade, significa che il primo cavallo di Troia ha varcato le mura. Anche perché subito dopo crollano le banche. Se i titoli in Borsa precipitano troppo, il problema è invece serio per le imprese: il Paese perde ricchezza, i consumi calano, le imprese fatturano meno, dunque licenziano. Se accade, significa che il secondo cavallo di Troia ha fatto centro.

E così via: mercati finanziari immensi e volatili, con la loro capacità  di amplificare l’isterismo, hanno alla fine un impatto enorme sull’economia reale. Chi vede il bicchiere mezzo vuoto pensa che tutto questo possa distruggere Paesi interi. Chi preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, invece, pensa che alla fine i mercati spingeranno i Governi a prendere velocemente decisioni difficili ma necessarie. Comunque li si guardi, i cavalli di Troia stanno entrando. E non possiamo neppure arrabbiarci non Ulisse: li abbiamo costruiti noi – uomini di finanza con il tacito consenso dei politici – non fantomatici nemici.


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