I prigionieri politici baschi continuano a morire

Ancora un caso, l’ennesimo, di morte ingiusta e prematura di un giovane prigioniero politico basco. Almeno ufficialmente, un suicidio. Quanto meno indotto dalla brutalità del sistema carcerario spagnolo. La notizia era apparsa su GARA del 7 marzo, suscitando non poca commozione tra gli abitanti di Euskal Herria. Scarso o nullo invece il rilievo su altri organi di informazione della penisola iberica.
Xabier Rey era stato ritrovato cadavere nella sua cella del carcere Puerto III, situato a El Puerto de Santamaria (Cadice). Una prigione a oltre mille chilometri da Pamplona, la città del giovane abertzale. Da due anni il militante di ETA si trovava in regime di isolamento e in precedenza aveva denunciato di essere stato sottoposto a tortura.
Dopo la dichiarazione definitiva di ETA sull’abbandono della lotta armata, (e mentre l’organizzazione indipendentista sta portando a compimento il dibattito interno sulla sua prossima, definitiva, autodissoluzione) la situazione del Paese Basco sembra essere precipitata in un limbo mediatico. Sicuramente Euskal Herria attualmente gode di minor visibilità rispetto alle tragicomiche (sia detto affettuosamente) vicende dell’indipendentismo catalano.
La questione dei prigionieri politici, già fondamentale in altri processi di pacificazione (Irlanda, Sud Africa…) rimane il maggior ostacolo alla prosecuzione del Processo di Pace, un processo avviato dalla società basca, ma osteggiato apertamente dall’indifferenza spagnola. Al solito, di fronte alle istanze di autodeterminazione, Madrid sceglie la scorciatoia repressiva, sicuramente più congeniale per i degni eredi del franchismo.
E quindi perché stupirsi se sulla morte di Xabier Rey è calato un impietoso silenzio?
Non così per il popolo basco, naturalmente. In migliaia hanno dato l’estremo saluto al compagno scomparso. Con il suono della txalaparta e l’Eusko gudariak.
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