Mafia, nel biglietto del boss spunta il telefono di Romano

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PALERMO – Il boss agrigentino Alberto Provenzano aveva annotato due numeri di telefono di Saverio Romano dietro un biglietto di “Pronto pizza – servizio a domicilio”: il giorno che l’arrestarono, durante un summit fra i capi delle famiglie della provincia, quel biglietto gli fu trovato nel portafoglio. Era il 2 agosto 2002. L’avvocato Saverio Romano era alla Camera dei deputati ormai da un anno. Ai magistrati che lo convocarono disse che Provenzano l’aveva conosciuto all’università , nel 1984, quando entrambi studiavano Giurisprudenza: «Poi, non l’ho più visto», precisò. Ma allora perché un capomafia (fino al 2002 un perfetto insospettabile) teneva nel portafoglio i numeri di cellulare e di studio di un avvocato-deputato? Con questa domanda inizia l’atto d’accusa del gip di Palermo Giuliano Castiglia, che nel luglio scorso ha riaperto il caso Romano e ha ordinato alla Procura l’imputazione coatta, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
In 107 pagine, il gip di Palermo sottolinea altri sei «elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio» per il neo ministro dell’Agricoltura. Si fondano innanzitutto sulle dichiarazioni di quattro pentiti.
Nino Giuffrè, vicinissimo a Bernardo Provenzano, ha sostenuto che di Romano «si sentiva parlare» quando era presidente dell’Ircac, l’istituto regionale per il credito alla cooperazione. Angelo Siino, l’ex ministro dei Lavori pubblici di Totò Riina, ha spiegato invece che nel 1991 Romano gli portò a casa Totò Cuffaro, candidato all’assemblea regionale. Salvatore Lanzalaco, anche lui come Siino ras degli appalti mafiosi, ha aggiunto che Romano e Cuffaro «procuravano a vari imprenditori, dietro il pagamento di tangenti, finanziamenti per lavori di vario genere». Il quarto accusatore dell’attuale ministro dell’Agricoltura è Francesco Campanella: il responsabile nazionale dei giovani Udeur che finì per proteggere la latitanza di Provenzano è stato il più dettagliato. Ha parlato di un pranzo a Campo dei fiori, nella Capitale, in cui Romano avrebbe detto: «Francesco mi voterà , siamo della stessa famiglia». La famiglia di Villabate, guidata da Nino Mandalà . «Fu proprio Mandalà  – ha aggiunto Campanella – a volere la candidatura di Giuseppe Acanto alle regionali del 2001, nella lista del Biancofiore. Romano lo sapeva e accettò».
Il pubblico ministero Nino Di Matteo li ha chiamati: «Elementi denotanti la contiguità  di Romano al sistema mafioso». Accuse gravi, che però, secondo la Procura, non avrebbero potuto portare a un processo. Ecco perché nei mesi scorsi era partita una richiesta di archiviazione, la seconda dal 2003 (la prima era stata accolta nel 2005). A marzo, quel documento del pm aveva interessato anche il Quirinale: erano i giorni in cui Romano stava per essere nominato ministro dell’Agricoltura.
Qualche tempo dopo, il gip Castiglia ha comunicato che era necessario andare avanti: si è fatto mandare dalla Procura tutti gli atti dell’inchiesta Cuffaro e ha riletto migliaia di ore di intercettazioni, quelle fatte dal Ros nel salotto del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. «Fu Romano, tramite un soggetto che non risulta individuato, a far sapere a Guttadauro che lo voleva incontrare»: è il colpo di scena dell’atto d’accusa del gip Castiglia. Perché fino a qualche tempo fa, inchieste e processi davano per scontato che fosse stato un altro dei delfini di Cuffaro, Mimmo Miceli, a proporre di sua iniziativa al boss Guttadauro un incontro con Romano. Ma il gip ha trovato un’intercettazione che era sfuggita a tutti. E adesso, nel capo d’imputazione di Romano, la Procura ha scritto: «Ha messo a disposizione di Cosa nostra il proprio ruolo, così contribuendo alla realizzazione del programma criminoso dell’organizzazione».
Sono 35 i faldoni che il 25 ottobre prossimo un giudice dovrà  esaminare, per decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio del ministro. Nei giorni scorsi, il pm Di Matteo ha depositato a sorpresa anche altre accuse, sono quelle dell’ultimo pentito di Cosa nostra, Stefano Lo Verso, che fra il 2003 e il 2004 fu autista del latitante Bernardo Provenzano. «Nicola Mandalà  mi disse: abbiamo nelle mani il paesano di mio parrino Ciccio Pastoia, Saverio Romano. Mio parrino è a conoscenza e consenziente». Anche il parrino Ciccio Pastoia, da Belmonte Mezzagno (il paese di Romano), era uno dei fedelissimi di Provenzano.
A sorpresa, la Procura ha depositato nei giorni scorsi anche un altro verbale di Campanella. Il pentito sostiene di essersi ricordato di una convocazione di Romano, a casa sua: «Nel 2001, mi disse che aveva intenzione di candidarsi anche come punto di riferimento delle famiglie di Villabate e Belmonte. E mi rappresentò che sapeva della mia vicinanza alla famiglia di Villabate». Campanella ha consegnato ai magistrati anche una fotografia del suo album di nozze: si vede Romano dietro gli sposi all’altare. A quel matrimonio c’erano pure Cuffaro e Clemente Mastella. E così, quella foto è finita fra i 35 faldoni dell’accusa. Ma anche il ministro Romano ha voluto fare il suo colpo a sorpresa, e nei giorni scorsi ha annunciato l’uscita del suo libro autodifesa, che si intitola “La mafia addosso”. «Ovvero, tutte le stravaganze di questa inchiesta – come le chiama lui – otto anni di indagini, e io sentito una sola volta, nel 2003».
In realtà , nel 2009, Romano era stato convocato una seconda volta dai pm, ma per l’inchiesta che lo vede indagato per corruzione, assieme al prestanome della famiglia Ciancimino, Gianni Lapis. Quella volta, però, si avvalse della facoltà  di non rispondere. «Troppo generiche le accuse», disse ai giornalisti. Il prossimo 3 ottobre, un altro gip dovrà  decidere sulla richiesta della Procura di utilizzare le intercettazioni fra Romano e Lapis. L’ultima parola dovrà  dirla, ancora una volta, la Camera dei deputati.


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