Chevron e il suo «volto umano»

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I paesi (o stati Usa) citati infatti hanno in comune il fatto di avere giacimenti di petrolio, e di avere Chevron tra le aziende che li sfruttano. «Noi siamo il volto umano delle operazioni di Chevron. Siamo qui armati della memoria dei nostri familiari morti, dei nostri vicini, i nostri figli ammalati», ha detto Carmen Zambrano, abitante di Shushufindi – un villaggio nella selva amazzonica ecuadoriana che ha la disgrazia di trovarsi nella zona di Lago Agrio, dove Texaco (azienda assorbita da Chevron dieci anni fa) ha sfruttato un giacimento di petrolio negli anni ’70 e ’80, prima di fare i bagagli lasciandosi dietro circa 18,5 miliardi di galloni di rifiuti oleosi, un territorio impregnato di greggio sversato, corsi d’acqua avvelenati. In questo caso l’inquinamento è stato quantificato con una certa precisione nel corso di una lunga istruttoria: qui infatti un gruppo di abitanti ha avuto il coraggio e l’iniziativa di fare causa alla compagnia petrolifera. E dopo un procedimento legale duranto molti anni, cominciato a New York e continuato in Ecuador, nel febbraio scorso il tribunale di Lago Agrio ha emesso una sentenza a favore dei querelanti. Una vittoria storica per i contadini e nativi di quella landa amazzonica: il tribunale ha giudicato Texaco (ora Chevron) responsabile dell’inquinamento che ha danneggiato la salute degli abitanti e devastato l’ambiente di cui sopravvivono. Ha quindi condannato Chevron a ripulire il danno e pagare 18 miliardi di danni (la somma si avvicina ai 20 miliardi che Bp è stata costretta a mettere in un fondo per le vittime del disastro petrolifero nella primavera 2010 nel Golfo del Messico al largo della Louisiana).
Per il momento non è successo nulla, perché quello era il giudizio di primo grado e Chevron ha fatto ricorso. «Chevron è colpevole e noi non possiamo aspettare», diceva Zambrano, una delle querelanti – leggiamo da un dispaccio del Environment News service, da cui traiamo le citazioni). Spiegava che attorno a casa sua non cresce più nulla: «Siamo la prova vivente, la crisi sanitaria da noi è urgente. Siamo qui per chiedere di persona alla compagnia che si assuma le sue responsabilità ».
Il caso dell’Ecuador è tra quelli citati nel rapporto titolato «Il vero costo di Chevron: un rapporto annuale alternativo», diffuso alla vigilia dell’assemblea degli azionisti una rete di 40 gruppi degli Stati uniti e di altri paesi. Una dei coautori, Antonia Juhasz, lancia un allarme: chevron, spiega, ha mostrato l’intenzione di espandere l’estrazione petrolifera offshore – benché la polemica sulle estrazioni in alto mare sia particolarmente aspra negli Usa proprio in seguito al disastro del Golfo del Messico. «Chevron, la terza azienda degli Stati uniti per dimensioni, e la prima della california, è ben consapevole dei pericoli delle perforazioni off shore», dice.
Gli attivisti sono rimasti fuori dalla porta, ma si sono fatti sentire. Tra loro c’erano rappresentanti di 22 comunità  locali, in molti casi appartenenti a gruppi nativi, in vario modo toccate dall’attività  di Chevron. La compagnia petrolifera del resto è contestata anche in casa: tra i manifestanti c’erano anche gli abitanti di Richmond, in California stessa, dove Chevron ha una raffineria contestata. Quando uno di loro, un reverendo, ha cercato di offrire una copia del «rapporto alternativo» a John Watson, l’amministratore delegato dell’azienda, è stato allontanato dalle guardie del corpo.


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