Rifugiati. “Storie, non etichette”

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Berthin ci porta indietro di 60 anni, al 1951, per l’esattezza, anno in cui, a Ginevra, veniva messa nero su bianco una convenzione che definiva una persona rifugiata come “chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o non vuole domandare la protezione di detto Stato”.  È proprio ai rifugiati che le Nazioni Unite hanno dedicato il 20 giugno, una giornata per ricordare, e ricordarci, cosa significhi essere “stranieri” anche nella propria terra.

Berthin, lei dirige “Mosaico”, un’associazione che non solo si occupa di rifugiati ma è composta quasi per intero da persone rifugiate. Come nasce questa esigenza?
Mosaico nasce a Torino nel 2007 su iniziativa di un gruppo di rifugiati originari di tutto il mondo. Abbiamo deciso di riunirci per dare una mano a chi sarebbe arrivato dopo di noi e a chi, inevitabilmente, si sarebbe trovato a vivere le stesse nostre problematiche e gli stessi ostacoli con i quali ci siamo dovuti scontrare, ognuno rispetto alla propria storia, diversa per mille motivi ma per troppe ragioni comune a tutti. Da quattro anni lavoriamo su diversi fronti: anzitutto per sostenere i rifugiati e le loro famiglie nel percorso d’inserimento e di integrazione, in collaborazione con la chiesa valdese e con altre realtà  sul territorio impegnate in questo ambito. Poi ci stiamo impegnando anche per la diffusione di conoscenza e informazioni puntuali sul tema delle migrazioni forzate, attraverso momenti d’incontro, sensibilizzazione e approfondimento. Accanto a noi lavorano anche tesisti, dottorandi, volontari, componendo, appunto, un prezioso mosaico di valori, competenze, provenienze e sensibilità , che è la vera essenza di ciò che siamo.

Da quanti anni è in Italia? Qual è la sua storia?
Sono nato nella Repubblica del Congo, da dove sono dovuto fuggire ben presto. Sono rifugiato in Italia dal 2002. Per un anno ho vissuto in un dormitorio in corso Tassoli, dove ho visto realtà , sofferenze e disagi che non potrò mai dimenticare e che hanno segnato profondamente tutta la mia vita. Ho trascorso intere notti in bianco, pieno di paura e rancore, un periodo terribile. La mia passione per il sociale è arrivata dopo la permanenza al Centro ecumenico Agape a Prali, dove sono stato ospitato per un periodo e dove ho scoperto…un altro mondo, che mi ha ridato la speranza dopo un primo impatto con la “società  occidentale” davvero drammatico. La speranza è così diventata per me uno strumento e una compagna di viaggio: ecco perché oggi ho un forte desiderio di condividerla con chi trova la determinazione per lasciare tutto e andare via da un contesto di violenza e di persecuzione.

Quali sono le richieste che oggi la vostra associazione fa alla politica, locale e nazionale?
C’è oggi una necessità  immediata, che è quella di armonizzare le politiche sui rifugiati. Oggi, infatti, se un rifugiato fa richiesta di asilo a Napoli non ottiene lo stesso trattamento che avrà  a Torino: manca una legge organica, il tema dell’asilo è ancora controverso, trattato con troppe disparità , con troppe differenze da Comune a Comune. C’è una confusione terminologica, giuridica, di trattamento davvero incredibile. Spesso, poi, si fa fatica a fare un bilancio delle competenze di ogni persona che arriva, ognuno ha un bagaglio, una storia, una biografia, magari una laurea, una specificità  che potrebbero essere valorizzate, ma quando sei un rifugiato ogni altra capacità  si perde, viene meno, si annulla dietro ad un’etichetta.

Qual è il senso della giornata del 20 giugno?
La giornata vuole essere un punto di riferimento per tutti coloro che a vario titolo lavorano in questo settore, oltre che, ovviamente, per tutte le persone rifugiate. Nel tempo, con le nostre iniziative, siamo riusciti qui a Torino a coinvolgere un numero sempre più ampio di partecipanti, di enti istituzionali e del privato sociale e di associazioni di volontariato. Viviamo il 20 giugno come una preziosa opportunità  per far dialogare tutti i diversi progetti e le realtà  che si occupano di asilo e persone rifugiate: spesso si fa fatica a conoscersi, a “mettere insieme i pezzi”, ma lunedì (e anche venerdì 17, quando a Torino si terranno le prime iniziative) proveremo ancora una volta a dar forma al nostro mosaico. Del resto, è per questo che siamo nati e che abbiamo scelto di fare la nostra parte.

(Federica Grandis)


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