“Rivoluzione Facebook? No, ha vinto la piazza”

Loading

TORINO E smettetela di dire che la primavera araba è stata la rivoluzione dei social network. È stata la rivoluzione della piazza, dei martiri. Facebook e Twitter sono stati solo dei mezzi di comunicazione, proprio come lo erano il telefono o le lettere nei decenni scorsi». Asma Heidi Nairi, 23 anni, attivista di Amnesty International e protagonista della «rivoluzione dei gelsomini» in Tunisia, scuote la testa quando sente parlare di «movimenti che hanno trovato una spinta nella Rete». A un anno esatto dalle sommosse popolari, che hanno causato la caduta di Ben Ali, la studentessa tunisina è oggi a Torino per l’incontro «Primavera araba, un anno dopo», in programma alle 18 al centro conferenze Campus Onu, a cui interverranno anche il direttore de «La Stampa», Mario Calabresi, e Domenico Quirico, inviato del nostro quotidiano.
Cosa resta oggi della rivoluzione tunisina?
«Una totale libertà  d’espressione. Abbiamo finalmente ritrovato l’ossigeno, anche se la libertà  d’informazione nel nostro Paese ora è in una situazione paradossale. Quasi tutti i gruppi che controllano i grandi media sono di sinistra, di opposizione. E pur di contraddire il governo ci bombardano ogni giorno con notizie false. Meno male che abbiamo Internet e i canali televisivi stranieri che smascherano tutte queste bugie».
Internet è stato il simbolo della vostra rivoluzione, un mezzo…
«Un mezzo, punto e basta. La rivoluzione l’abbiamo fatta andando in strada, mica stando davanti al pc. Purtroppo in Occidente c’è questa convinzione, perché voi la nostra rivoluzione che non è stata raccontata dai media tunisini l’avete vissuta solo grazie alla Rete. Ma per noi non è stato così».
La dittatura di Ben Ali, però, è intervenuta censurando il web.
«Chiaro, hanno cercato in ogni modo di zittirci. Per esempio entrando nelle nostre caselle di posta elettronica. La mia è stata bloccata più volte e ho perso centinaia di contatti. E se nelle nostre mail c’erano critiche al governo, il destinatario spesso riceveva messaggi criptati, con foto pornografiche o addirittura con annunci di automobili… Ma la censura non era solo nella Rete: per noi di Amnesty era impossibile riuscire a trovare un hotel che ci affittasse una sala per le nostre riunioni».
Qual è la situazione dei diritti delle donne, ora, in Tunisia?
«Esattamente come prima. Da noi la parità  c’è sempre stata e Ben Ali usava proprio questa parità  come arma per dire: “visto che siamo un Paese libero? ”. Le donne tunisine, nel mondo arabo, sono da sempre considerate le più emancipate. Tanto che si dice: “Non sposare mai una tunisina”… ».
Crede che la rivoluzione dei gelsomini sia stata determinante anche per far cadere le altre dittature, come ad esempio quelle in Libia o in Egitto?
«Certamente. Nel mondo arabo c’è una forte solidarietà  e se succede qualcosa in un Paese anche gli altri si sentono toccati. Inoltre Ben Ali era considerato il più forte e così gli egiziani, piuttosto che i libici, hanno detto: “se ce l’hanno fatta loro, possiamo farcela anche noi”. Ma credo che la stessa spinta sia arrivata anche molto più lontano, basta vedere gli indignati in Spagna o a Wall Street».
L’Italia è una delle mete dei migranti tunisini: cosa è cambiato dopo la caduta di Ben Ali?
«Sono cambiate le destinazioni. Ora molti tunisini preferiscono andare in Libia, in Qatar oppure a Dubai. Anche perché ci si sente molto meno discriminati. Ci si sente più sicuri in tema di diritti dell’uomo».
Religione e politica spesso si saldano nei Paesi arabi, anche ora che le dittature sono crollate. Quanto la seconda deve essere influenzata dalla prima?
«La mia risposta è una domanda: in Italia sono consentiti i matrimoni omosessuali? ».


Related Articles

A Calais resta solo la scuola, senza bambini

Loading

Reportage. Le lezioni per i profughi vanno avanti tra le ruspe. Ma la classe si svuota, gli studenti hanno paura della polizia

Auto-immolazioe e precetti buddisti

Loading

 Di Li Decheng  – Cina Daily (l’autore è direttore dell’Istituto delle Religioni nel Cina Tibetology Research Center).

 Diversi monaci e monache buddisti si sono suicidati di recente nella regione tibetana della provincia del Sichuan. Dandosi fuoco fino alla morte hanno rotto uno dei principi fondamentali del buddismo in modo estremo e brutale.

Come buddisti, uno dei cinque precetti o regole con cui devono vivere, infatti, è che dovrebbero evitare di uccidere o danneggiare qualsiasi essere vivente, compreso se stessi. Uccidere un essere umano, il suicidio, così come incitare e istigare altri a uccidere sono dunque tutti peccati gravi.

Belgio. L’aria «magique» di Place Moscou

Loading

«Pourquoi es tu là ?». In realtà  non è una domanda, è un invito. Un invito a spiegare, a sé stessi, agli altri, ai commercianti e ai vicini cosa ci fanno alcune tende, una cucina da campo, una mezza dozzina di divani e un bel po’ materassi nel bel mezzo di place Moscou, quartiere di Saint Gilles, Bruxelles. Le risposte esprimono la varietà  che anima il movimento di piazza di queste settimane. «Vogliamo riprendere la parola», «in Europa non c’era un movimento sociale dai tempi della guerra in Iraq», «il clima politico è ormai intollerabile e adesso è il momento che il sentimento di rivolta si esprima».

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment