Il fornaio Khader digiuna in cella L’ira dei palestinesi
Se nei proverbi palestinesi è febbraio il più crudele dei mesi, quella di Khader è la più cruda delle proteste. Colpisce Israele al suo tallone d’Achille giudiziario, le «detenzioni amministrative» che consentono d’infliggere semestri di carcere per semplici sospetti, spesso senz’accuse specifiche o interrogatori di garanzia. Il panettiere di Kabatia fu arrestato a Jenin il 17 dicembre.
Portavoce di Jihad islamica, movimento che vuole la distruzione d’Israele, è dal ’99 che entra ed esce di prigione, dove ha già fatto sei anni. Stavolta ha deciso d’opporsi all’«umiliazione cui sono sottoposti centinaia di palestinesi»: 310 per l’esattezza, uno dei quali detenuto da oltre 5 anni, una ventina imprigionati da più di due. La sua battaglia sta scaldando le piazze: da Gaza, sono stati lanciati i Qassam; altri detenuti hanno cominciato lo sciopero della fame; 5 mila persone hanno manifestato a Jenin; ci sono stati disordini sulla Spianata delle moschee. Per Khader ha lanciato un appello Catherine Ashton, responsabile esteri dell’Ue. E un funzionario dell’Onu l’ha detto chiaro: «Se quest’uomo muore, rischiamo la terza intifada». Le autorità di polizia non vogliono cedere, per evitare un precedente: la Corte suprema stabilì già nel 2002 che queste carcerazioni preventive, teoricamente rinnovabili all’infinito, rispettano le convenzioni internazionali. Scrive un giornale vicino al premier Netanyahu: «Questa Guantanamo non piace a nessuno. Ma dobbiamo anche ricordarci che cos’è la Jihad». Aggiungendo che, per evitare un nuovo Bobby Sands, l’unica è l’alimentazione forzata: «Perché in Israele non abbiamo un’Iron Lady».
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