Il governo: nessuna modifica per gli statali

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ROMA — «Sì». «Forse». Alla fine «no». Al termine di una giornata in altalena, il ministero del Lavoro, guidato da Elsa Fornero, ha sciolto i dubbi circa l’applicazione delle modifiche all’articolo 18 contenute nella riforma del mercato del lavoro: «Non riguarderanno gli statali», ha precisato. «Non a caso al tavolo non partecipa il ministro della Funzione pubblica, Patroni Griffi». 
La prima risposta alla domanda se le nuove norme sui licenziamenti individuali senza giusta causa e senza giustificato motivo fossero applicabili anche ai dipendenti pubblici (cioè a statali, dipendenti di enti locali, in tutto tre milioni e quattrocento mila lavoratori, pari al 5,7% della popolazione), è venuta dal dipartimento della Funzione pubblica. Ed è stata un «sì». Ufficiosa la motivazione: anche ai dipendenti dello Stato si applica lo Statuto dei lavoratori e, dunque, le sue modifiche. Una valutazione basata sulla natura privatistica del rapporto di lavoro (stabilita nel 1993) e soprattutto sul fatto che il Testo unico sulla Pubblica amministrazione del 2001 ha integralmente recepito la legge 300 del 1970, cioè lo Statuto dei lavoratori, compreso l’articolo 18.
Prima ancora che questa tesi emergesse, la sola ipotesi di un’estensione delle novità  sull’articolo 18 ai pubblici dipendenti aveva scatenato un putiferio. Sia pure con accenni diversi, tutti e tre i leader sindacali di Cgil, Cisl e Uil avevano escluso tale possibilità . «La riforma dell’articolo 18 non potrà  essere applicata al settore pubblico», aveva detto la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso. «L’articolo 18 non è facilmente estendibile ai lavoratori del pubblico impiego», aveva dichiarato, da parte sua, il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. «Se il governo ha deciso di cambiarla o di innovarla — aveva aggiunto — noi non ne sappiamo nulla. Non siamo stati informati né in forma scritta né in forma orale». 
Imbarazzato («Non mi risulta»), il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, tra i più impegnati nella mediazione con il governo, ma la cui base di iscritti è in gran parte proprio nel pubblico impiego. A Bonanni sembrava di «ricordare che la Fornero disse all’inizio di questa storia che il pubblico impiego non era coinvolto». Solo a questo punto, nel tardo pomeriggio, il dicastero retto da Filippo Patroni Griffi ha diramato una precisazione per dire che l’effetto sugli statali sarebbe stato valutato solo dopo la messa a punto definitiva della modifica della norma sui licenziamenti economici individuali. Una dichiarazione che non ha fatto altro che accrescere l’ansia dei sindacati, almeno fino alla precisazione di Fornero che ha escluso l’applicabilità  delle norme al pubblico impiego. Anche se resta il dubbio che tale esclusione debba essere esplicitata nel testo.
Ma non è questo l’unico nodo da sciogliere nella riforma. C’è infatti la scelta della forma dell’intervento: decreto legge o legge delega. Mai infatti come in questo caso la forma è sostanza, con un coinvolgimento più o meno ampio del Parlamento nella decisione. Sta prendendo sempre più corpo l’ipotesi di ricorrere a un provvedimento unico, attraverso un disegno di legge di delega che amplierebbe quella già  aperta dal ministro Tremonti sugli ammortizzatori sociali, in modo da estenderla a tutte le altre modifiche: articolo 18 compreso. Un pacchetto così complesso potrebbe però non essere pronto entro domani, ultimo giorno utile prima della partenza del premier per la Cina. Quanto ai contenuti sono ancora in gioco la cassa integrazione per le piccole imprese, la transizione per la mobilità  e la flessibilità  in entrata. Mentre è ormai sicuro che per le imprese sotto i 15 dipendenti le norme non cambiano: resta invariata la nullità  dei licenziamenti discriminatori con la disposizione del reintegro da parte del giudice del lavoro. Negli altri casi, se il licenziamento è illegittimo, il datore di lavoro sceglie tra reintegro e indennizzo, ma di sole 15 mensilità .


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