Tra i sopravvissuti di Fukushima “Noi, il popolo dei radioattivi”

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La vita spenta è ciò che resta dell’esplosione atomica nella centrale di Daiichi. Il cuore del disastro del Giappone, un anno dopo, è un muscolo che non batte più. L’impianto di Fukushima emerge da una distesa di campi abbandonati, coperti da tralicci spezzati, bidoni di liquido contaminato, cedri caduti, scheletri di mucche e di cani. E’ una gigantesca carcassa squarciata, annerita e storta. Affiora da un deserto che deve aver assistito a una guerra e guarda l’oceano. Dall’11 marzo 2011 tutto qui è morto. Ogni cosa è rimasta immobile, come se lo tsunami l’avesse imbalsamata. Davanti ai reattori scoperchiati, il fondo del Pacifico ora è rivestito di cemento. Solo dei sacchi dividono l’acqua dal combustibile nucleare. Attorno, teli bianchi coprono la terra uccisa. Non si può pescare, non si può coltivare, non si può respirare, non si può camminare. Entro venti chilometri non si può vivere. Oltre, fino a cinquanta, è «sconsigliato». 
Le radiazioni però sono invisibili. Non hanno una forma, non fanno rumore, non emanano odore. Non uccidono all’istante, come una lama. Sembrano non esistere. Per questo migliaia di persone sono tornate, e sognano di ritornare, nell’epicentro della catastrofe. I condannati di Fukushima sono nati qui: sette su dieci hanno superato i 65 anni. Le radici sono più forti della paura. Chi è vecchio, oppure è stato contadino, o pescatore, non teme la morte. Oggi ha piuttosto terrore della vita, se non può più essere la sua e si trasforma in un limbo senza fine. Nella prefettura della centrale, i villaggi e le città  evacuate sono undici. Questo mondo amputato dalla terra è esploso in centinaia di ordinati e lindi accampamenti temporanei, simili a satelliti collocati sul confine dello spazio considerato inadatto a forme di vita. Decine di migliaia di sopravvissuti abitano prefabbricati di pochi metri. Un anno fa sono stati costretti a fuggire da Namie, Tomioka, Naraha, Okuma, Iidate e altri paesi svuotati. Non hanno più una casa e un lavoro. Hanno perduto i parenti e gli amici. Il 30% è rimasto solo. Uno studio dell’università  di Fukushima rivela che due sfollati su dieci hanno gravi problemi mentali, o nervosi. Il 5% è a rischio suicidio, otto su dieci sono perseguitati da insonnia e depressione. Un sondaggio dell’agenzia Kyodo ha fissato a 1331 le vittime correlabili al disastro nei mesi successivi alla crisi. Morti suicidi, per polmoniti, o dopo esaurimenti contratti durante i tre o quattro trasferimenti obbligati, tra un ricovero e l’altro. 
Nella centrale di Daiichi oggi lavorano in tremila. Operai e tecnici sono impegnati a scongiurare nuove esplosioni. Occorrono almeno dieci anni. Dentro l’impianto la radioattività  resta di 1500 micro-sievert all’ora: la soglia di sicurezza è di 0,114. Chi entra, protetto con tute da alieno, può restare un paio di minuti per volta. Alcune aree critiche dell’impianto, dopo un anno, non sono state ancora esplorate. Dentro i venti chilometri interdetti, i rilevatori Geiger segnano tra 7 e 12 micro-sievert, con oscillazioni inspiegate. Qui vive un uomo solo. Naoto Matsumura, 52 anni, si è rifiutato di abbandonare Matsumoka. Allevava animali, non possedeva altro: non li ha lasciati. Adesso cura centinaia di bestie inselvatichite, tra cui uno struzzo, tornate nel “Ground Zero” del Giappone. «Ho chiesto alle autorità  – dice – di bonificare più in fretta. Altrimenti, prima di poter riaprire i villaggi, saremo tutti morti». 
Appena oltre la frontiera marcata dal governo però, gli abitanti si ammassano già . Per mesi si sono registrati tra 2 e 3 micro-sievert all’ora, una concentrazione che la scienza considera letale. Oggi il contatore si ferma a 0,8: otto volte il livello di Tokyo, limite della cosiddetta normalità . I giapponesi delle altre prefetture li chiamano «i condannati di Fukushima». 
Centinaia di cittadine sono divise in due. Parte dei residenti riceve un indennizzo di mille euro a testa al mese. L’altra parte, nulla. Famiglie, o vicini di casa, discriminati per una differenza di centimetri, stabilita a tavolino. Il villaggio di Onami è il simbolo di questa drammatica selezione: 237 famiglie, solo 57 indennizzate. Le case bonificate, dopo un anno, sono 26. Era la fattoria scintoista della capitale: riso, tè e pesce. Coltivazioni, stalle e aree di pesca resteranno contaminate per decenni. «Chi non riceve il sussidio – dice Chimi Sato, contadina di 77 anni – rischia di morire di fame. E le risaie, non coltivate, sono perdute». Nei luoghi sospesi tra la vita e la morte, non troppo vicini ma non abbastanza lontani dai reattori di Daiichi, per sopravvivere ci si nutre con quanto cresce sotto terra: patate, carote, rape e rafano. Questi ortaggi non superano i 500 Becquerel, limite oltre il quale i prodotti vengono sequestrati. «Gli agricoltori però – dice Yoshitaka Sato, capo del distretto – mangiano anche gli altri, compreso il riso dell’anno scorso. Non abbiamo scelta». 
A Fukushima nessuno sa dove finiscano le tonnellate di riso e di tè requisite per eccesso di radioattività . Nessuno sa dove finiranno le scorie nucleari della centrale, né i milioni di metri cubi di terra e di acqua contaminati. Solo quattro città , in tutta la nazione, si sono dichiarate disposte a smaltire detriti di Fukushima. Nella fascia di “evacuazione consigliata”, migliaia di persone disoccupate sono così condannate a tapparsi dentro case infette, senza poter mangiare ciò che coltivano e senza poter usare l’acqua. «Beva il tè – dice Yasuko Yamada, profuga di Namie – foglie e acqua non sono mie, vengono da Osaka». I bambini sono costretti a cambiare scuola spesso. I compagni non li accettano in classe e li chiamano «i radioattivi». Dall’11 marzo 2011 sono chiusi in una stanza. Hanno perso gli amici, non giocano e non hanno più fatto un giro in bicicletta. Molte famiglie si sono divise in una doppia vita. I maschi adulti restano nei luoghi ad alta radioattività . Donne e bambini trascorrono parte del giorno appena fuori. Tutti attendono un annuncio che il tempo ha mutato in una ghigliottina. Il governo dovrà  dire se e quando potranno essere riabitate le città -fantasma, coltivate le terre tossiche. Per la maggioranza degli anziani la frase «mai più» equivarrà  a una sentenza di morte. Tokyo da mesi rinvia quel momento. Le famiglie giovani aspettano invece di sapere dove potranno tentare di ricostruire un’esistenza. 
«Per quarant’anni – dice Saori Kanesaki, ex guida turistica della di Daiici – politici, scienziati e gestori della centrale atomica hanno assicurato che un incidente era impossibile. Ai visitatori io spiegavo che il rischio nucleare era zero. Non sapevamo, non immaginavamo. Invece è successo e abbiamo capito». La violenza della distruzione, in cui ogni cosa resta in apparenza intatta ma tutto è in frantumi, spiega perché la maggioranza dei giapponesi supplica oggi le autorità  di rinunciare al nucleare e di non riaccendere le 54 centrali. Gli affari però sono affari, i soldi precedono la vita, economia e politica tacciono. Demiko Numauchi, professoressa a Minamisoma, ha deciso così di sacrificarsi per tutti. E’ rimasta dove non dovrebbe. In poche settimane ha perso i capelli a ciocche, poi i denti, infine le unghie dei piedi. I suoi occhi di mostro calvo sono palle rosse e la pelle si strappa a veli, come la corteccia di una betulla. «Dopo morta – dice – voglio che mi facciano l’autopsia all’estero. Una prova deve restare, almeno una, perché un giorno non dicano che a Fukushima in fondo non è successo nulla». Qui domenica si onorano i defunti e si piange per i sopravvissuti. Un metro più in là  no perché la vita è spenta.


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