In parte democratici
Senza la quale nessuna riforma servirà a molto «Quello dei tecnici è un falso problema. C’è chi, in fondo, non ci ha mai digerito, e ora, in questa fase delicata, vuole scavalcare i partiti, prendere il loro posto ed eliminare il suffragio popolare». Giulio Andreotti, 1992I partiti vogliono riformare se stessi. Per questo hanno intenzione di approvare una legge sulla propria democrazia interna. Sostengono che si tratterebbe di un’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, ma quest’articolo in realtà non prevede nulla di tutto ciò. Anzi, in Assemblea Costituente fu ritirato un emendamento di Costantino Mortati in tal senso, vista l’opposizione della Democrazia Cristiana e – soprattutto – del Partito Comunista Italiano.
Per lungo tempo poi i partiti hanno sempre escluso che si potesse regolare per legge la loro attività interna, gelosi della propria autonomia e preoccupati per un controllo politico che gli organi pubblici avrebbero potuto esercitare. In Germania, in fondo, proprio in Costituzione è stato scritto il principio di esclusione dei «partiti antisistema» dalla competizione politica, con chiari risvolti autoritari che non possono essere presi ad esempio. E la nostra stessa storia patria dà prove eloquenti di come tramite una legge sui partiti si possa finire per imporre limitazioni alle libertà di partecipazione politica sia ai singoli sia alle formazioni di partito. Ora queste preoccupazioni sembrano svanite. Perché?
Vi sono due livelli di risposta al quesito: il primo guarda al contingente, il secondo si interroga nel profondo.
Nel primo caso è evidente che la proposta di regolare per legge l’attività interna degli attuali partiti politici rappresenta un tentativo per riconquistare al «diritto» un’attività svolta in sedi istituzionali e di gestione della cosa pubblica, sempre più rilevante e sempre meno trasparente.
Sono, dunque, le funzioni pubbliche svolte dai partiti che impongono di disciplinare l’attività interna. In fondo, chi potrebbe contestare che sia utile sapere almeno quali sono i criteri in base ai quali si nominano i vertici dei partiti, si scelgono i candidati da inserire nelle liste o nei collegi per le elezioni, si definiscono i programmi, si tutelano le minoranze e i singoli iscritti? Per non parlare della richiesta di controllo sui finanziamenti ricevuti sia dai privati sia dallo Stato, che non possono essere attribuiti senza alcuna possibilità di verifica. E così si spiega la richiesta di attribuire una personalità giuridica ai partiti, di definire gli standard di democrazia degli statuti, di regolare la scelta delle candidature (alcuni volendo persino imporre il sistema delle primarie a tutti e in ogni caso).
Ma se si guarda un poco più in profondità , si scorge una seconda ragione che spiega perché oggi c’è bisogno di una legge per i partiti, mentre sino a ieri essa era ritenuta superflua se non dannosa. È la perdita di legittimazione sociale – il discredito nel quale sono cadute tutte le formazioni politiche – a imporre che sia la legge a sostenere la legittimità dei loro comportamenti. Per lungo tempo ai partiti è stato riconosciuto un ruolo fondamentale di costruttori di democrazia. Basta pensare che furono i partiti, prima, a organizzare la resistenza e a liberare l’Italia, poi, a scrivere la Costituzione e a fondare la Repubblica democratica. Anche negli anni successivi – almeno per tutto il primo trentennio – non si è mai pensato che dovesse essere una legge a imporre la democraticità dei loro comportamenti, poiché era la loro capacità di rappresentare gli interessi reali dei cittadini la migliore garanzia di democrazia.
È vero, anche in passato si ponevano questioni di rispetto del diritto dei singoli (degli iscritti), delle procedure (nella composizione delle liste) o dell’attività (la disciplina di partito, le restrizioni al libero mandato dei parlamentari). Per non parlare, anche in questo caso, della perenne oscurità delle fonti di finanziamento. Tutto questo però poteva considerarsi assorbito entro un superiore sistema di legittimazione: quello dettato dalla rappresentanza politica effettiva.
Per lungo tempo i partiti sono stati un reale strumento di partecipazione dei cittadini alla politica, per questo non era la legge a regolare la loro attività , bensì era lo scontro politico a indicare le regole che ciascun partito si dava per conseguire il fine di determinare la politica nazionale.
Oggi non è più così sia perché le forme della partecipazione politica si sono estese e vanno ben al di là della forma partito, sia perché la capacità dei partiti di rappresentare le ragioni della società e gli interessi delle persone reali si va sempre più attenuando sino a scomparire entro un’univoca e totalitaria autorappresentazione della politica intesa come tecnica del potere.
Entro questa specifica prospettiva, allora, non credo ci si possa accontentare di una legge, ma sarà necessario affrontare la questione di fondo che si pone alla base della crisi di legittimazione dei partiti. Essi svolgono un ruolo determinante e non sostituibile nel nostro ordinamento costituzionale, a una condizione: che siano in grado di rappresentare effettivamente la divisione pluralistica della società . Lo impone proprio la Costituzione quando scrive che i partiti sono uno strumento al servizio dei cittadini, per permettere a ciascuno di concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale.
È la frattura tra società e partiti il vero problema. Più che attuare per legge l’articolo 49 della Costituzione, dunque, sarebbe sufficiente leggerlo. LA COSTITUZIONE
cita i partiti all’art. 49:
«Tutti i cittadini hanno diritto
di associarsi liberamente
in partiti per concorrere con metodo democratico
a determinare la politica nazionale». E alla XII disposizione finale che
viete la riorganizzazione
del partito fascista
«I partiti fanno la differenza tra i 600mila cittadini che hanno votato per l’Ulivo e i 16 milioni e 900mila con i quali abbiamo vinto. I 16 milioni sono i partiti». Massimo D’Alema 1998
«Se i partiti avessero selezionato dirigenti all’altezza, se avessero fatto le loro fondazioni come in Europa, non saremmo qui per riempire un vuoto». Romano Prodi 1999
«I partiti politici sono organizzazioni anacronistiche rispetto a un modello di democrazia che non può più esaurirsi nella rappresentanza». Manifesto
per un soggetto politico nuovo, 2012
«I partiti non sono tutti uguali, ma sono tutti partiti. Sovrastrutture senza valore aggiunto, se non per se stesse. Sono il passato, cancellati dalla storia». Beppe Grillo 2011
«La politica fino a qui è stata fatta da professionisti delle chiacchiere. Noi in due mesi abbiamo messo su un partito e dodicimila club in tutta Italia. Una cosa impensabile, un miracolo». Silvio Berlusconi 1994
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