Eventi estremi, non bastano gli allarmi

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I cambiamenti climatici non si affrontano soltanto con la riduzione delle emissioni tossiche nell’atmosfera, del disboscamento delle foreste pluviali e dell’impatto antropico sull’ambiente ma anche con politiche di contenimento dei rischi legati ad eventi estremi (in inglese DRR Disaster risk reduction). Quest’ultimo non è certo una cura della malattia, quanto un palliativo dei sintomi: infatti è noto come l’aumento globale della temperatura inneschi fenomeni naturali violenti e distruttivi quali frane, piene dei fiumi, erosione delle coste, uragani, tifoni e ondate di siccità , calore o di freddo. La prevenzione dai danni dei disastri ambientali però non è un semplice adattamento o una precauzione per salvare il maggior numero di vite umane, ma può diventare una palestra di buone pratiche ecologiche, dalla tutela dei fondali oceanici al drenaggio dei fiumi alla messa in sicurezza delle città , capaci di invertire la rotta del nostro rapporto con l’ambiente.

Da anni un ufficio Onu, l’UNISDR (United Nations International Office for Disaster Reduction), coordina gli aspetti informativi e concreti sul tema, soprattutto attraverso l’ISDR (International Strategy for Disaster Reduction). Nel mese di luglio scorso l’UNISDR ha pubblicato il suo rapporto annuale (qui disponibile in formato .pdf) riguardante la concretizzazione sul campo degli adattamenti suggeriti per la DRR, la situazione degli investimenti effettivi, la capacità  di flessibilità  e di resistenza agli eventi estremi di città , scuole e ospedali e infine il rafforzamento di un sistema internazionale per la gestione dei disastri.

Nel 1999 il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite suggeriva ai vari paesi l’ISDR, la strategia contro i rischi dei disastri ambientali e per uno sviluppo sostenibile: nel gennaio 2005 a Kobe, Hyogo in Giappone, nel corso della Conferenza Mondiale sulla Riduzione dei Disastri, 168 Stati del mondo hanno adottato l’Hyogo Framework for Action 2005 -2015, un piano decennale di largo respiro che prospetta le linee guida in questo delicato settore.

I principali obiettivi dell’intesa che prevedeva due piattaforme, una globale, una adottata dai singoli paesi aderenti, erano i seguenti, come riportato dal sito della Protezione civile italiana: ridurre, entro il 2015, la perdita di vite umane, di beni sociali, economici e ambientali in caso di disastro naturale; integrare la riduzione del rischio da disastro nelle politiche di sviluppo sostenibile; sviluppare e rafforzare le istituzioni, i meccanismi e le capacità  per aumentare la resistenza ai rischi; incorporare sistematicamente gli approcci alla riduzione del rischio nell’implementazione della risposta immediata e nei programmi di ripresa.

La Piattaforma nazionale italiana, formalmente adottata con un decreto della presidenza del consiglio dei ministri del 18 febbraio 2008, è rimasta nel cassetto fino a luglio 2011, quando è stata presentata in un convegno. Prendiamo ancora una nota ufficiale della Protezione civile: “Nel 2009, a seguito del terremoto che ha colpito l’Abruzzo, la realizzazione della Piattaforma italiana ha subito un rallentamento [strana conseguenza, un disastro naturale come il terremoto avrebbe dovuto far accelerare il processo, non a fermarlo; ndr], ma dopo la prima fase emergenziale lo strumento è stato rilanciato con maggiore forza e oggi vengono finalmente realizzate concretamente le prime iniziative. Mauro Dolce, direttore dell’Ufficio Rischio sismico e vulcanico ha illustrato lo sviluppo della normativa antisismica, mentre Paola Pagliara, responsabile del Centro Funzionale Centrale settori idro e meteo, hanno illustrato il sistema di allertamento e la piattaforma Dewetra, un sistema integrato per il monitoraggio in tempo reale del territorio, la previsione e la prevenzione dei rischi naturali”.

I rischi presenti nel nostro paese sono soprattutto di natura sismica e idrogeologica: il terremoto dell’Emilia ha dimostrato la fragilità  del territorio anche in zone ricche ed avanzate ma che non riescono ad affrontare in maniera adeguata i rischi. Tecnologie all’avanguardia, simulatori potentissimi, satelliti e modelli matematici si rivelano sempre insufficienti per gestire le situazioni: sono giganti di argilla che non risolvono il problema generale della manutenzione del territorio.

L’anno scorso, in sordina, alcune città  italiane hanno aderito alla campagna “Making Cities Resilient. My City is Getting Ready”. Milano, Torino, Varazze e 15 comuni della Toscana riuniti nell’Unione dei Comuni della Valdera, hanno infatti aderito alla campagna promossa da UNISDR. Insieme a Roma, Firenze, Ancona e Venezia, questi comuni fanno oggi parte di un network che, in Europa, conta oltre 300 città  aderenti. Soprattutto Ancona è presa ad esempio dal Rapporto sulle città  “resilienti” 2012 per il monitoraggio del rischio sismico legato anche al pericolo di maremoti. Forse si comincerà  da qui a risalire la china.

Piergiorgio Cattani


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