L’esercito espugna la moschea ultimo baluardo degli islamici

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CAIRO — L’immagine dei militanti islamici che escono stremati dalla moschea di Ramses, con le mani alzate e la mascherina antigas che pende floscia sul viso vale più di molte analisi politiche. I Fratelli musulmani sono nell’angolo. Anzi il governo egiziano sta studiando come metterli fuori legge, cacciarli nelle catacombe della vita politica, come fece il presidente Nasser nel 1954. Nel giro di soli due anni, dunque, si potrebbe chiudere la parabola della confraternita religiosa e di mutuo soccorso, fondata da Hasan el Bana nel 1928 , riapparsa alla luce nel 2011, dopo il rovesciamento di Mubarak, salita al potere con Mohammed Morsi nel 2102, a sua volta spodestato il 3 luglio 2013. Oggi come allora si procede sulla punta dei fucili. O meglio sui cingoli dei carri armati del nuovo rais dell’Egitto, il generale Abd al-Fattah Al-Sisi. I suoi sottoposti sono stati anche ieri protagonisti, anzi padroni assoluti della scena. Nella notte tra venerdì e sabato i militari avevano portato via i cadaveri allineati sui tappeti, coperti con lenzuola e qualche stecca di ghiaccio. È l’esito del «giorno della collera», fissato per venerdì 16 agosto dai Fratelli, in risposta alla strage del 14 negli accampamenti di Rabaa al Adawiyah e di al Nahda.
All’alba di ieri i tank color ocra, con la bandiera nazionale sul tettuccio, sono già schierati. Quattro chiudono il grande viale di accesso alla moschea; altri cinque bloccano le vie laterali. Nell’edificio consacrato ad Allah si sono barricate alcune centinaia di militanti: 600-700. La piazza è attraversata lateralmente da un lungo cavalcavia, su cui si posiziona il furgoncino bianco della tv Al Jazeera che comincia a trasmettere in diretta. Cinque blindati della polizia stazionano proprio davanti al cancello, gli agenti appaiono rilassati, con i fucili in posizione di riposo. È chiaro che i manifestanti sono in trappola, con un po’ di capacità negoziale ci sarebbero le condizioni per evitare un’altra carneficina. E per almeno due-tre ore sembra questa la soluzione scelta dalle autorità militari: convincere gli occupanti a uscire con le buone. Ma all’improvviso, poco prima di mezzogiorno, sbuca un gruppo di miliziani armati e comincia a sparare sul cordone formato dai carri armati. I soldati balzano fuori dai mezzi, indossano i giubbotti anti proiettile e rispondono al fuoco. Proprio davanti a noi. Si cerca riparo nell’androne di una banca, passano i minuti e poi si può correre via. Da quel momento, però, la tensione torna altissima. Nel frattempo lo slargo si riempie di una rabbia contraria e speculare a quella barricata nella moschea. A frotte arrivano i sostenitori del nuovo corso, gli anti-Morsi, e, più semplicemente, gli abitanti del quartiere, i proprietari delle botteghe. Si vede spuntare anche qualche bastone. La sera avanti i manifestanti più scatenati si erano spinti nelle vie laterali, lasciandosi dietro una scia di fiamme e devastazioni. Risultato: un paesaggio da guerriglia. Strade e marciapiedi picconati per ricavare pietre e blocchi di cemento. Palazzine di tre-quattro piani annerite dal fumo, macchine carbonizzate, negozi sfondati. Solo nella tarda notte di venerdì i poliziotti sono riusciti ad arginare l’assalto degli estremisti islamici, salvando la chiesa copta di San Marco, la seconda più grande del Cairo, distante tre-quattrocento metri dal perimetro degli scontri. I fedeli hanno organizzato un piccolo corpo di guardia all’interno della chiesa. Sguardi allarmati, controllo dei documenti. Padre Rafic Greiche, portavoce dei copti, tiene il conto dei luoghi di culto cattolici e ortodossi presi d’assalto: ora sono 49.
Alle due del pomeriggio il senso di pericolo davanti alla moschea di El Fath comincia a diventare concreto. Qualcuno preme sulla lunga cancellata, qualcun altro si avvicina minaccioso ai giornalisti stranieri, accusati con un’equazione tutta di pancia, di simpatizzare con i «terroristi», visto che tv e giornali occidentali hanno scarnificato la condotta del nuovo regime.
Lo scenario cambia ancora subito dopo. Dal minareto piovono proiettili di sotto. È un attimo e le grida sono sovrastate dalle raffiche dei militari. La torre da cui il muezzin diffonde le preghiere dell’Islam viene rapidamente sfigurata e, soprattutto, sconsacrata dagli uni e dagli altri. Ma nessuno sembra farci caso, come fosse una cosa normale o un incidente che può capitare. E dunque anche di questo conviene prendere nota: nell’Egitto di oggi il tempio di Allah è diventato ospedale, obitorio e da ieri anche trincea. Tanto che il governo ha decretato la chiusure di tutte le moschee ogni sera a partire dalle 20.15, dopo l’ultima preghiera della giornata.
Intanto in piazza Ramses l’epilogo è vicino. Più o meno nello stesso momento in cui i poliziotti lanciano gas lacrimogeni oltre i portoni sbarrati, Mostafa Hegazi, portavoce del presidente provvisorio Adii Mahmud Mansur, si presenta davanti ai reporter della stampa internazionale. Sul campo le divise cercano di cavarsi di impaccio: la stessa cosa prova a fare, in giacca e cravatta, Hegazi. Alle cinque la moschea è liberata. Ancora a tarda sera non si capisce se ci sono morti da contare. Le fonti sono diverse. Sempre Al Jazeera manda in onda testimonianze che riferiscono di aver visto delle vittime. Meglio aspettare oggi per avere un quadro più certo e per capire se bisognerà aggiornare il numero totale delle perdite umane, oltre quota 700 (173 solo venerdì).
Il portavoce del presidente esplora le vette del diritto, del principio d legalità. Sembra di sentire parlare, tanto è nobile,impeccabile, il segretario delle Nazioni unite. Ma il lirismo di Hegazi si spezza improvvisamente, quando dichiara: «Il popolo egiziano è sceso in piazza il 30 giugno contro il fascismo teologico e religioso». In mattinata, un altro portaparola, Sherif Shauqui, riferiva che il primo ministro Hazem el-Beblawi ha proposto lo scioglimento dei Fratelli musulmani «e il governo sta valutando se ci sono le basi giuridiche». Naturalmente pure questa mossa va ricondotta al generale Al-Sisi. E non può che aumentare l’allarme per la tenuta del Paese. D’un tratto diventerebbe illegale la rete di aiuti e sostegno alla popolazione costruita nei decenni dai Fratelli musulmani: un welfare di base che supplisce alle tutele ufficiali di fatto inesistenti. Cacciati tutti: i moderati come gli estremisti; i violenti come gli inermi (e ce ne sono); i dirigenti disponibili al dialogo e i mestatori. È la strada che porta diritto allo scontro finale (altro che la pacificazione invocata dalla diplomazia mondiale). Forse anche a una guerra civile strisciante, magari circoscritta, ma sicuramente telecomandata dai militari. Del resto i bastoni visti ieri a Ramses e le sparatorie tra fazioni opposte dell’altro giorno sembrano confermare questa deriva. Finora la polizia ha arrestato un migliaio di attivisti islamici, mentre ieri, gruppi armati anti Morsi hanno incendiato l’abitazione della guida suprema dei Fratelli, Mohamed Bedie, in una città a sud del Cairo. Suo figlio Ammar, invece, è stato ucciso negli scontri.
Giuseppe Sarcina


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