Il colore del gatto di Deng e l’arte comunista di progettare

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Qualche parola anzitutto per ricordare quali motivi rendano il Terzo plenum del Partito comunista cinese, dopo l’ascesa al potere di una nuova dirigenza, più importante di quello che lo ha preceduto e di quello che lo seguirà. La storia comincia nel 1978 quando Deng Xiaoping, riemerso dall’esilio politico in cui era stato confinato, ritrovò l’autorità perduta negli anni della Rivoluzione culturale e si servì della terza convocazione del Comitato centrale per annunciare al Paese il programma delle «quattro modernizzazioni».

Arrivai in Cina qualche settimana dopo, lessi il lungo comunicato reso pubblico alla fine del plenum e credetti che quello fosse soltanto uno dei molti documenti con cui i partiti comunisti programmavano un futuro irrealizzabile. Era un errore. Le quattro modernizzazioni annunciate da Deng divennero la piattaforma politica di una riforma che avrebbe cambiato la Cina, trasformato l’Asia e dato uno straordinario colpo di acceleratore al processo di globalizzazione. Viviamo in un mondo diverso anche perché un piccolo uomo, sfuggito alle dissennate purghe della Rivoluzione culturale, aveva deciso, con una metafora indimenticabile, che il colore di un gatto non ha alcuna importanza e che la sua virtù si giudica dall’abilità con cui riesce a catturare i topi.
Da allora il Terzo plenum, convocato spesso un anno dopo l’avvio di una nuova fase, è quello apparentemente più favorevole alla formulazione della linea politico-economica che il Paese adotterà nel corso del decennio successivo. Come tutti coloro che hanno governato la Cina dopo la rivoluzione economica di Deng, anche i nuovi leader sembrano essere convinti che il pragmatismo e il mercato non possano fare a meno di un «piano». Non si va al potere, nella Repubblica popolare, per governare alla giornata. Occorre avere una visione organica del futuro. In una lunga conversazione con un corrispondente asiatico del Financial Times , apparsa il 9 novembre, il Dalai Lama ha ricordato che quasi tutti i leader cinesi, dal 1949 ai nostri giorni, si sono identificati con un progetto. Mao è stato l’uomo dell’ideologia nella sua versione più astratta e radicale; Deng quello che ha introdotto il capitalismo in un Paese socialista; Jang Zemin quello della trasformazione del Pcc in partito interclassista, aperto ai nuovi capitalisti; Hu Jintao quella della «società armoniosa» dove tutti, all’ombra del partito, possano realizzare se stessi. Non sempre i leader hanno vissuto all’altezza delle loro ambizioni e mantenuto le loro promesse. Ma il documento conclusivo del Terzo plenum è diventato ormai il discorso della corona in un regno dove il monarca può contare, grosso modo, su un potere decennale.
Come sempre, anche in questa occasione il discorso è redatto nel linguaggio retorico della tradizione comunista cinese con passaggi che si presteranno a diverse interpretazioni. Ma qualche indicazione emerge sin d’ora con una certa chiarezza. La Cina continuerà a credere nel mercato e gli riconoscerà una maggiore autonomia. Ma vuole evitare bolle speculative, eccessivi aumenti del mercato immobiliare e del debito, pubblico e privato. La crescita, nel 2014, dovrebbe aggirarsi intorno al 7% del prodotto interno lordo e i cinesi saranno incoraggiati a spendere più di quanto abbiano fatto nell’ultimo decennio. Ma l’incoraggiamento, a giudicare dallo strepitoso aumento del commercio elettronico negli ultimi giorni, è probabilmente inutile. Sembra che il Comitato centrale del partito sia consapevole dei fattori d’instabilità sociale emersi negli ultimi anni: piccole ma numerose insurrezioni di villaggio, frequenti sfide al potere delle sezioni locali del partito, rabbiose proteste contro il degrado ambientale. Vi saranno maggiori garanzie per gli agricoltori, spesso privati bruscamente delle loro terre. Verrà creato un nuovo comitato per la sicurezza interna, con una implicita allusione al recente attentato di piazza Tienanmen nel quale avrebbero perso la vita cinque militanti uiguri, giunti da una provincia musulmana ai confini con il Kazakistan, il Xinyiang, che chiede una maggiore autonomia
Come tutti i buoni propositi, anche questi verranno messi alla prova sul terreno. Non è mai stato facile governare la Cina, ma le difficoltà, d’ora in poi non possono che aumentare. Il capitalismo di Deng ha creato una moltitudine di topi che si muovono sul mercato con grande aggressività e spregiudicatezza. Il mercato ha prodotto imprenditori intelligenti e dinamici, ma anche una corruzione che ha fortemente inquinato il partito. I personaggi ingombranti, come Bo Xilai, vengono messi in prigione, ma i seguaci sembrano decisi a costituirsi in partito. Le restrizioni demografiche (un figlio per famiglia) hanno rallentato la crescita della popolazione, ma la società cinese è oggi molto più vecchia di quanto fosse all’epoca della Rivoluzione culturale e dovrà affrontare i due grandi grattacapi dell’Occidente negli ultima decenni: il sistema previdenziale e quello sanitario.
Esistono infine problemi che sfuggono alla logica della programmazione. Che cosa accadrà del debito americano depositato nelle casseforti delle banche cinesi? Che cosa farà dei suoi missili il monello nord-coreano, un figlioccio imprevedibile e disobbediente? Quale sarà nei prossimi anni la politica estera del Giappone, dove il governo Abe parla un linguaggio più nazionalista di quello dei suoi predecessori? I cinesi sanno che non tutto può essere previsto e preparato, ma preferiscono avere nel cassetto un piano di lavoro a cui fare riferimento. Si adatteranno agli avvenimenti, ma credono nell’utilità di un progetto concordato al vertice e spiegato al Paese. E’ un retaggio del loro passato comunista, forse il migliore.
Sergio Romano


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