“Salvati 11mila posti, ma ora la crisi è finita”

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ROMA — «Nell’ultimo anno qui abbiamo salvato più di 11 mila posti di lavoro», dice Claudio De Vincenti, sottosegretario allo Sviluppo economico. È qui al primo piano di palazzo Piacentini in Via Veneto che l’Italia delle crisi prova a ripartire, ridisegnando un profilo industriale a un’economia che invece sta perdendo la sua antica fisionomia. Tutti i giorni (e anche molte notti) qui fuori, all’incrocio con Via Molise, ci sono presidi di lavoratori mentre dentro si tratta per non far chiudere le industrie. «Abbiamo appena firmato l’accordo per l’Indesit. Un’intesa molto significativa, approvata da oltre il 79% dei lavoratori ».
Ecco, iniziamo dall’Indesit. Il leader della Fiom, Maurizio Landini — che ha firmato solo dopo il referendum tra i lavoratori — ha accusato il ministero di aver presentato un testo che rispecchiava le posizione dell’azienda.
«È vero il contrario. L’accordo è il frutto del negoziato che è stato fatto. E i lavoratori hanno riconosciuto il valore di quell’accordo».
Perché dice che è molto significativo?
«Perché dai 1.400 esuberi denunciati inizialmente dall’azienda siamo passati a zero esuberi. È successo perché l’azienda ha accettato di riportare in Italia alcune produzioni realizzate in Turchia, Spagna e Polonia. Produzioni a più alto valore aggiunto. E poi ci sono più di 80 milioni di investimenti nei prossimi tre anni destinati agli stabilimenti italiani. È una scommessa ma è soprattutto una modifica profonda del piano industriale presentato all’inizio dall’Indesit».
Sembra la vostra missione: cambiare i piani di ristrutturazione presentati dalle imprese. È così?
«I piani industriali possono essere cambiati. Guardi il caso della Bridgestone. Il gruppo giapponese aveva annunciato la chiusura dello stabilimento di Modugno in provincia di Bari per un eccesso di capacità produttiva in Europa. Alla fine siamo riusciti a convincere la proprietà a spostare qui da noi da altri continenti alcune produzioni».
Come avete fatto?
«Principalmente con la moral suasion. Parlarsi serve a questo, a esplorare nuove soluzioni. Certo, è più facile chiudere anziché scommettere su il rilancio di un’industria ».
Questa in fondo è la politica industriale.
«La politica industriale, però, non è solo la gestione delle crisi. Per ottenere determinati risultati è importante la spinta dei lavoratori che non vogliono la chiusura delle proprie imprese. Il nostro diventa così un work in progress, nel quale agli ammortizzatori sociali, gestiti insieme al ministero del Lavoro, si associano altri strumenti: penso al Fondo per favorire l’accesso al credito delle piccole e medie imprese; penso alla nuova versione degli incentivi per investimenti in ricerca e sviluppo».
Vista da qui, la crisi è finita?
«I segnali ci sono. Di certo abbiamo toccato il pavimento e dunque dovremmo risalire. Mi manterrei prudente ma sembra che ci siano le condizioni per ripartire. In ogni caso la strada è ancora tosta».
Quale sarà, secondo lei, il futuro industriale italiano?
«Un punto di forza continuerà di certo ad essere il made in Italy tradizionale: macchine utensili, moda, agro-alimentare. Ma non solo: sta emergendo una nuova Italia industriale in produzioni tecnologicamente avanzate, come — limitandomi a due esempi — l’efficienza energetica, le biotecologie, e poi, ma non è una vera novità, la farmaceutica».
Nei negoziati qui al ministero avete spesso a che fare con aziende multinazionali. Se dovesse indicare un motivo per investire in Italia quale indicherebbe?
«La qualità dei nostri lavoratori e l’eccellenza dei ricercatori. Il capitale umano è una delle nostre».
E il sindacato non è un ostacolo agli investimenti stranieri?
«No. Il sindacato sta evolvendo. Sa cos’è, invece, che scoraggia l’arrivo dei capitali stranieri? L’incertezza delle norme. Questo è il vero problema per chi vorrebbe scommettere sull’Italia».


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