Cina, la questione mongola

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C’è anche un’altra versione che circola in rete: il pastore starebbe stato ucciso volontariamente dopo una disputa non risolta con funzionari della compagnia mineraria Spring City Group sul valore dell’indennizzo per alcune terre requisite. Gli stessi funzionari avrebbero poi ordinato ai camionisti di passare sul cadavere. Alcuni agenti di polizia avrebbero assistito alla scena senza intervenire. Questa versione non è confermata, le autorità  stanno indagando.
Quale sia la verità , è questa la scintilla che incendia la Mongolia interna, regione nella quale, nonostante il nome, i mongoli sono solo il venti per cento circa della popolazione complessiva (24 milioni di abitanti in un territorio più grande di Italia, Germania e Spagna messe insieme): l’80 per cento degli abitanti è di etnia han, quella maggioritaria in Cina.

In varie parti della regione, scendono in strada per protestare non solo i nomadi pastori. Ci sono pure gli studenti dell’università  di Hohhot, capoluogo di regione. Anche se di natura diversa rispetto alle rivolte in Tibet (2008) e Xinjiang (2009), la sollevazione nasce infatti da un malcontento diffuso e per certi versi simile.

C’è una questione etnico-culturale. Cina e Mongolia sono due civiltà  prima ancora che due Paesi, due culture che da sempre si toccano e interagiscono senza assimilarsi, in guerra e in pace, per una ragione che si può banalmente sintetizzare così: da una parte c’è il popolo più nomade del mondo (i mongoli), dall’altra quello più stanziale (i cinesi). A nord della Grande Muraglia, l’economia estensiva fondata sulla pastorizia, a sud il lavoro collettivo dell’agricoltura e dell’irrigazione; a nord la minore densità  di popolazione del pianeta, a sud il popolo più numeroso.
E così, anche nella regione che della Mongolia ha il nome, i mongoli “veri” sono in percentuale sempre meno, subiscono l’avanzata degli han.
Come in altre regioni autonome, il governo di Pechino ha provveduto a garantire alcuni diritti speciali alla minoranza etnica per favorirne sopravvivenza e integrazione: l’indicazione dell’etnia mongola sulla carta d’identità , permette per esempio di accedere più facilmente ai servizi sociali e all’università . Così, molti han si fanno passare per mongoli, annullando di fatto la “discriminazione positiva”. Come in Tibet, non si tratta tanto di tendere all’indipendenza – ipotesi che nel caso tibetano l’Occidente sventola ad arte per i propri interessi – ma di garantire la sopravvivenza di una civiltà  che rischia di scomparire di fronte alla globalizzazione interpretata “secondo caratteristiche cinesi”.

Si viene quindi al fatto economico. La Mongolia Interna è la regione che fornisce più carbone alla Cina, la fonte energetica su cui ancora viaggia principalmente la “fabbrica del mondo”. Ma il Dragone non di solo carbone ha bisogno: è significativo che contemporaneamente alle notizie delle agitazioni in Mongolia arrivino anche quelle sul boom della domanda cinese ci acciaio (quindi di ferro) e di rame.
Come nella repubblica mongola indipendente, anche in Mongolia Interna l’attività  mineraria sta quindi via via sostituendo l’economia tradizionale. Non è un passaggio indolore: l’utilizzo intensivo del suolo, con relativo corollario di inquinamento e degrado ambientale, sottrae spazio e libertà  di movimento, interrompe gli spostamenti nomadici e altera i cicli naturali. Un corso d’acqua a cui si abbevera il bestiame può essere improvvisamente prosciugato o inquinato dall’attività  estrattiva, è una risorsa che si perde. Ma ancora più grave è l’impatto sociale: nella maggior parte dei casi, il pastore che vende il bestiame e cerca di riciclarsi nelle miniere, perde se stesso senza trasformarsi in qualcosa di diverso. C’è quindi un accumulo di disperazione che esplode senza trovare mediazioni politiche.

Un accumulo favorito anche dalle misure che vengono prese di fronte alle proteste. In Mongolia Interna, il governo ha risposto con il solito dispiegamento di polizia e paramilitari, la chiusura dei campus universitari, il divieto ai giornalisti stranieri di recarsi in certe zone e il tentativo di chiudere la questione in fretta e furia: il 22 maggio le autorità  locali hanno spedito due persone dai familiari di Mergen con 560mila yuan in contanti (circa 60mila euro) per mettere tutto a tacere. Dato che le proteste continuavano, il vicesegretario del Partito nella regione autonoma, Ren Yaping, ha visitato nuovamente la famiglia venerdì 27 e, con profondi inchini, ha garantito un’inchiesta seria e approfondita. Due han, presumibilmente gli autisti del camion, sono stati arrestati.

Più interessante è capire se la vicenda determinerà  un progetto di lungo periodo per lo sviluppo equilibrato della regione, necessità  sempre più impellente per un Partito comunista che si gioca il futuro sulla capacità  di estendere il benessere a chi finora ne è rimasto escluso.
Al momento si può solo leggere tra le righe delle dichiarazioni ufficiali: “Tutti i dipartimenti, le imprese e i governi locali interessati devono dare prontamente notizia degli incidenti che si verificano nelle aree minerarie e nei collegamenti stradali, cercando di risolverli”, scrive Xinhua, riportando un comunicato ufficiale.
Si prevedono regole di sicurezza più stringenti per le compagnie minerarie e uno sviluppo delle infrastrutture in tutta la regione. Ma il problema sembra più profondo.


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