Fmi, Lagarde accetta la candidatura ma i Paesi emergenti protestano

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LONDRA – Le nazioni emergenti protestano per la “blindatura europea” sul vertice del Fondo monetario internazionale, ma la loro rivincita sembra rinviata al prossimo turno. Christine Lagarde, ministro francese dell’Economia, ha ufficializzato ieri la propria candidatura per succedere al connazionale Dominique Strauss-Kahn. Ha dietro di sé i 27 governi dell’Unione europea. Gli Usa dovrebbero starci, in cambio dell’adesione europea al loro “Piano Marshall” per Nordafrica e Medio Oriente, un insieme di aiuti che oggi saranno al centro del G8 a Deauville.

In una lettera congiunta al G8 firmata dal segretario di Stato Hillary Clinton e dal suo collega del Tesoro Tim Geithner si sottolinea che le rivoluzioni arabe hanno bisogno di sostegni economici, «commercio, non aiuti». Barack Obama vuole allargare alla sponda sud del Mediterraneo l’intervento della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, fondata dopo la caduta del Muro di Berlino. «E’ assurdo – scrivono Clinton e Geithner – che le esportazioni non petrolifere da quell’area siano meno del 10%».
La Lagarde ha promesso di «completare un mandato pieno», cinque anni, se nominata al Fmi. E’ un’allusione al fatto che i suoi tre predecessori, Horst Koehler, Rodrigo Rato e Dsk, hanno tutti abbandonato anzitempo la poltrona di direttore generale. Ma è anche un modo per respingere l’ipotesi di un mandato corto, che la designerebbe a dirigere il Fmi solo per i due anni che restavano a Dsk. La Francia dunque è di nuovo in pole position per occupare, in nome dell’Europa, la guida dell’organismo di Washington che ha un ruolo-chiave nelle crisi sovrane. E’ il Fmi il vero regista tecnico del salvataggio greco, anche se le decisioni politiche vengono prese a Bruxelles, Francoforte, Berlino. La Lagarde ha dovuto tenere conto delle forti critiche venute dai Bric (Brasile Russia India Cina). «Darò una spinta alle riforme interne – ha detto – perché siano meglio rappresentate dentro il Fondo le nazioni emergenti». Figlio della conferenza di Bretton Woods che disegnò il nuovo ordine economico post-bellico nel 1944, il Fondo riflette un mondo che non esiste più. L’Olanda con l’1,76% di diritti di voto è poco distante dall’India che ne ha 2,62%. E’ anacronistico il “privilegio storico” degli europei di nominare uno dei loro al vertice. Per le nuove potenze asiatiche e latinoamericane, suona poi come una beffa la giustificazione recente: poiché oggi il Fmi deve gestire soprattutto delle crisi debitorie di Stati membri dell’eurozona, è importante che al timone ci sia qualcuno che conosce bene i problemi di Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna. Questo argomento non fu usato quando nella bancarotta finivano il Messico o la Thailandia. Al contrario, a quei tempi il Fondo somministrava le terapie di risanamento in nome del pensiero unico neoliberista, il cosiddetto “consenso di Washington”.
E’ sconcertante che l’Europa riesca a conservare questo bastione di potere, proprio quando i giacimenti mondiali di capitali sono in Asia: la Cina ha più risorse da prestare alla Grecia, di quante ne abbiano gli Stati Uniti. Ma la crisi al vertice del Fmi è arrivata troppo presto, gli emergenti non hanno avuto il tempo per coalizzarsi su una candidatura unica. Ieri il solo candidato di quell’area era il governatore della banca centrale messicana Augustin Carstens. Il ministro delle Finanze messicano, Ernesto Cordero, ha detto che «a favore di Carstens parlano i risultati: la crescita economica del Messico ha raggiunto il 5,5%». India e Cina sono rimaste fuori dal totonomine anche perché hanno politiche valutarie non perfettamente in regola con la filosofia del Fmi: le loro valute non sono pienamente convertibili. Ma è chiaro che le condizioni per una direzione del Fmi affidata a un non-occidentale matureranno presto. Il Brasile ha chiesto che in futuro «la selezione avvenga attraverso una competizione aperta». Il segretario al Tesoro Usa Geithner ha auspicato una nomina «trasparente, aperta, meritocratica». Sono tre aggettivi identici a quelli usati da Pechino. Suonano la fine del Fondo monetario come “riserva europea”, in futuro. Nell’immediato sulla Lagarde gli americani non hanno obiezioni: a 55 anni, prima di essere chiamata a Parigi da Nicolas Sarkozy, aveva fatto tutta la sua carriera come avvocato a Chicago e New York, nel grande studio legale Baker & McKenzie. Non guasta il fatto che sia una donna, viste le circostanze delle dimissioni di Dsk. La Lagarde ha una grana giudiziaria in patria – è accusata di abuso di potere per finanziamenti agevolati all’affarista Bernard Tapie, amico di Sarkozy – ma dovrebbe essere prosciolta dal tribunale dei ministri a Parigi il 10 giugno. Il suo vero limite è un altro: non è un’economista. Prima della sua caduta disastrosa, di Dsk tutti stimavano l’autorevolezza. Pesava nelle mediazioni fra i vari attori della tragedia greca: Angela Merkel, la Bce, la Commissione Ue. Di fronte al precipitare della crisi debitoria di Atene, poi al rischio di un effetto-domino che travolgerebbe Portogallo, Irlanda, forse altri paesi più grossi, la Lagarde dovrebbe fare il proprio “rodaggio” in un contesto eccezionalmente difficile.

 


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