Il paesaggio è un bene costituzionale

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Questa assunzione non fa una “ubbia culturalista” dei costituenti, ma il riconoscimento dell’esistenza di una legislazione sulla tutela di beni culturali e ambientali assai avanzata, di riferimento per tutti gli stati occidentali, che aveva – ancora prima della Costituzione – già  segnato dettati normativi importanti con le leggi sui beni culturali e il paesaggio del 1909, del 1922 (qualche mese prima della Marcia su Roma) e soprattutto con i due provvedimenti del 1939.
L’Italia è stata infatti la prima nazione al mondo a “costituzionalizzare” il paesaggio – sottolinea Salvatore Settis – ricordando così che la citata normativa post-unitaria e prima le tante leggi che avevano contrassegnato le diverse entità  istituzionali che contrassegnarono l’Italia preunitaria – dallo Stato Pontificio a Firenze, dal Regno borbonico a quello savoiardo – sancivano «l’acquisizione sociale e culturale» del patrimonio paesaggistico quale categoria da tutelare ex legge, in quanto «espressione identitaria degli italiani nel loro costituirsi come cittadinanza». 
Oggi il Codice (Decreto Urbani del 2004 e successive) dichiara che tra gli elementi fondamentali del patrimonio paesaggistico statale, tra i «temi paesaggistici» «di primario interesse nazionale», c’è la fascia costiera che «per i 300 metri dalla linea di battigia» (molte Regioni hanno esteso tale area di rispetto) viene tutelata integralmente. Il Codice ha sancito la necessità  di salvaguardia assoluta di un bene, anche perché lo stesso era già  largamente compromesso: il nostro paesaggio costiero è infatti abbrutito ed imbruttito da abusi, costruzioni in deroga, possibilità  di esulare dai vincoli nei centri urbani, situazioni preesistenti alla norma. Tuttavia la legge ha inteso negli anni ribadire l’esigenza di salvaguardia «almeno degli ambiti non compromessi» e di recupero «dei brani già  alterati» di paesaggio costiero, richiamandone la valenza costituzionale. Una censura del Presidente della Repubblica, prima degli inevitabili ricorsi alla Consulta, sarebbe quindi atto dovuto, più che giustificato. 
Il Decreto sullo sviluppo, espressione tipica della dittatura dell’ignoranza che contraddistingue i nostri anni, pretende di risolvere, con modi superficiali quanto volgari, una delle maggiori querelle di politica dei suoli nazionale: il nodo storicamente critico tra diritti «di proprietà  e di superficie» che ha sovente problematizzato fino all’ingestibilità  l’urbanistica italiana. Il riformismo territoriale ha infatti assunto quanto stabilito dalla legislazione “progressista” fin dal 1967: «Il titolo di proprietà  non da’ diritto di disporre della destinazione d’uso di un suolo, in quanto i diritti di superficie sono stabiliti dallo strumento urbanistico, rappresentante dei superiori interessi della collettività ». Questa norma è stata oggetto di contenziosi e conflitti infiniti, anche prima del 1980, quando la Corte Costituzionale, proprio sottolineando che il territorio – a differenza del paesaggio – non è inserito tra i «fondamenti» dell’ordinamento statale (la Costituzione ne tratta all’articolo 117), non legittima la supremazia della tutela dello stesso «quale interesse collettivo» superiore a quelli legati alla proprietà . Di qui la rimessa in discussione degli stessi vincoli urbanistici e previsioni dei piani, «in attesa di una prossima riforma generale del regime dei suoli», eternamente di là  da venire.
Oggi il nostro ineffabile esecutivo risolve questo nodo al contrario: il diritto di superficie può essere differito da quello di proprietà , ma non «per superiori interessi collettivi», bensì per «superiori interessi speculativi», nella fattispecie di operatori turistici e costruttori. Se l’ambito in questione è inserito in distretti turistici da “valorizzare” può essere edificato o trasformato; al di là  di qualsiasi tutela paesaggistica e destinazione urbanistica. Siamo al delirio.
Nel merito della questione, se i nostri ministri leggessero le statistiche sul consumo di suolo, sull’edilizia vuota ed inutilizzata, e sul fatto che – a dispetto della cementificazione delle spiagge – ormai in molte località  gli hotel non si riempiono nemmeno a ferragosto, forse rifletterebbero sull’insensatezza delle loro proposte.


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