Nella mia vita ho corso sempre a ritmo di jazz

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Né di destra né di sinistra, individualista
La qualità  essenziale per fare il politico è il buonsenso. Non occorrono cultura o intelligenza eccezionali. Anzi, troppa intelligenza può rivelarsi controproducente, mentre un minimo di buonsenso può portare molto lontano. Ma ovviamente, come tutti sanno, non c’è nulla di meno comune del comune buonsenso! Quello della politica è un interesse che nella mia vita è sbocciato con la maturità . Certamente il cinema vi ha contribuito, ma forse non tanto quanto può credere la gente. Non è nelle sceneggiature che trovo le mie idee, ma viaggiando fuori dagli Stati Uniti. È in Europa che ho iniziato a guardare al mondo in maniera globale, lì ho scoperto che il resto del pianeta non si identificava con l’America. Crescere in America procura sicuramente enormi vantaggi, ma comporta anche qualche svantaggio. Uno di questi è che credi di non aver bisogno di parlare altre lingue o capire altre culture. Ma il mondo è molto più grande e complesso di quanto in genere non immagini la maggior parte degli americani. Le persone sono diverse. C’è chi frettolosamente balza alla conclusione che questa diversità  non possa che provocare conflitti. In realtà , è questa la vera ricchezza del pianeta. La domanda da porsi, pertanto, è: «Pur nella nostra grande diversità , come possiamo convivere su questo pianeta?».
Se poi guardiamo allo scacchiere politico americano, direi che sono troppo individualista per stare a sinistra o a destra. Mi hanno sempre dipinto come un repubblicano conservatore, ma io non sono d’accordo con questa definizione. In realtà  sono un repubblicano della vecchia guardia. La prima volta che ho votato lo feci per Eisenhower, negli anni Cinquanta. Ma non sono uno di parte. E ci sono state occasioni nelle quali ho votato per i democratici. Mi accosto alla politica da cittadino, non da ideologo. Gli ideologi sono le persone più noiose al mondo.
Il jazz resta sempre la strada meno battuta
Sono cresciuto ascoltando jazz, e sapevo di essere diverso perché mi piaceva più il jazz dello swing o del rock’n’roll. È la musica di una minoranza, a prescindere da quanto grande, ed è proprio questo che me la rende ancora più cara. Oggi più che mai se a un ragazzo piace il jazz invece del rock lo si ritiene un ribelle, un individualista, uno che va controcorrente e che sceglie la strada meno battuta.
Per quanto mi riguarda, tutto ebbe inizio con il Dixieland jazz. Essendo cresciuto nella Bay Area, ascoltavo gruppi come i Blue Waters, la Yerba Buena Jazz Band, o Turk Murphy. Scoprii Dave Brubeck quando suonò al Lakeshore Avenue, a Oakland. Poi, lasciato l’esercito, mi ritrovai a fare il tagliaboschi a Springfield, in Oregon, e mi capitò spesso di star sveglio tutta la notte ad ascoltare alla radio roba molto diversa dalla country music. Ne rimasi affascinato e da allora non ne ho più potuto fare a meno. A quattordici anni imparai a suonare il filicorno, uno strumento che a quei tempi non era certo popolare, ma che da allora è diventato un po’ più di moda. A scuola imparai a suonare la cornetta, e poi il pianoforte. Suonavo nei pianobar, suonavo ragtime e blues all’Omar Club di Oakland, e in cambio mi davano un pasto gratis. A scuola rimasi affascinato anche dal rhythm and blues, poi cominciai a suonare nei concerti “Jazz at the Philharmonic”. Fu lì che conobbi Charlie Parker, Coleman Hawkins, Lester Young e altri musicisti famosi. Negli anni Cinquanta dominava il duo Dave Brubeck-Gerry Mulligan. C’erano anche Stan Kenton, che dirigeva un grande gruppo; Woody Herman, dal cui album Lemon Drop ero stato letteralmente sedotto; e poi il bebop, da non dimenticare: andava alla grande con Dizzy Gillespie e Kenny Clarke. Si resta sempre affezionati ai musicisti che si ascoltano nella propria giovinezza. La loro musica si ricollega inevitabilmente a questo o quel ricordo. Prendiamo Nat King Cole, che ai miei tempi si ascoltava moltissimo: per me resterà  sempre legato ai miei primi appuntamenti con le ragazze. Poi, col passare degli anni, ho iniziato ad adorarli tutti, giovani e vecchi, da Louis Armstrong a Miles Davis.
Racconto storie che nessuno racconta più
Come qualunque altro ragazzino andavo a vedere i film di grande successo, Furore, Via col vento, Accadde una notte e così via, ma anche pellicole più di genere come Governante rubacuori o Winchester ’73. Se ripenso alla mia infanzia, ricordo le commedie di Preston Sturges. Mi piacevano anche I dimenticati, e Joel McCrea in particolare. Forse non aveva il carisma di Gary Cooper, ma ti dava l’impressione che dentro di lui stesse provando molto più di quanto esprimeva. Pochi film stranieri erano importati a quei tempi, ma ricordo un film australiano, Quarantamila cavalieri, una pellicola piena d’azione: è stato il primo film nel quale gli attori imprecavano. Li si sentiva dire «Dannazione!», oppure «Va’ al diavolo!». Non era stato girato certo qui… Il Codice Hays [il manuale di autocensura al quale negli anni Trenta dovettero uniformarsi registi, produttori e attori, redatto da Will H. Hays, presidente della Motion Pictures Producers and Distributors of America, ndt] lo avrebbe impedito!
Oggi che faccio film devo dire che per interessarmi davvero, una storia non deve svolgersi in una grande area urbana. Nelle piccole cittadine e negli spazi aperti accadono cose alle quali pochi prestano attenzione. A me piace cambiare, provare di tutto, che si tratti di una storia drammatica come Mystic River o una storia più intima come Million Dollar Baby, che sembra quasi girato in campagna perché i personaggi di fatto sono come dispersi nell’area urbana. Quei due tipi mezzi falliti nella loro palestra mezza fallita formano uno strano abbinamento di persone, quasi ai margini della società . Devo dire che sono stati film difficili da realizzare perché non attiravano granché i finanziatori. Non sembravano promettenti. Non erano certo del tipo Mission Impossible, con tutti i gadget e gli effetti speciali possibili e immaginabili! Erano semplicemente storie comuni, ma avevano una grande componente emotiva. Non so neanch’io perché racconto storie di questo tipo. Forse solo perché non lo fa più nessuno.
Solo il destino ha guidato la mia vita
Il sogno americano è un sogno che si realizza per moltissime persone, e anche per molte aziende. Penso ai maghi dell’informatica che hanno cominciato in un garage della Silicon Valley e poi hanno fatto fortuna con le loro imprese. Anche questo è un tipo di sogno americano. Ma ce ne sono altri, nei quali si ha successo non in termini di soldi, ma anche solo portando a buon fine un progetto accarezzato da tempo. E questo è ancora possibile oggi in America.
Il mio è stato quello di poter lavorare a qualcosa che mi piacesse davvero. Mi piaceva recitare. Mi piaceva essere una sorta di Walter Mitty [nel film The Secret Life of Walter Mitty Danny Kaye sogna di interpretare molte parti diverse, ndr], avere l’opportunità  di fantasticare a modo mio in molte avventure diverse. Essere in grado di fare un mestiere per il quale fai ciò che davvero ti piace, e per di più sei pagato per farlo, è un grande privilegio. Ho fatto anche molti altri mestieri in vita mia che non mi piacevano affatto, ma ho dovuto farli per tirare avanti. Agli inizi della mia carriera d’attore ricordo periodi di vacche grasse e periodi neri, di vera fame. Ma poi sono stato abbastanza fortunato da ritrovarmi nella condizione di poter avere successo e lavorare senza interruzione. E infine mi sono dedicato alla regia. Mi piaceva essere regista e affrontare e risolvere tutti i dilemmi con i quali è alle prese il genere umano. Nessuno nella mia famiglia lo aveva fatto prima di me e non so se qualcuno lo farà  dopo di me.
Dedicarsi all’arte, o alla recitazione o alla musica, è sicuramente qualcosa che rimpiango di non aver fatto prima in vita mia. Mio figlio è diventato musicista e mi accorgo di quanto sia felice e si diverta a suonare. Sono contento che sia riuscito a farlo da giovane. Almeno ha saputo subito qual era la sua strada. A me non è andata mai così: non ho mai saputo in quale direzione mi sarei diretto, mi ci sono semplicemente trovato. La vita è stata una corsa. Mi ha reso fatalista. Credo che il fato abbia un grosso peso nella nostra vita, e che sia lui a guidarci. Posso dirlo: non ho avuto altro mentore in vita mia al di fuori del destino.
Traduzione di Anna Bissanti


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