Alle radici dell’America

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Joe Ricketts è la quintessenza dello statunitense. Miliardario, in dollari, la sua famiglia è proprietaria della squadra di baseball dei Chicago Cubs, è titolare di diverse società  tra cui la più grande azienda che commercia in carne di bufalo. Personaggio singolare, forse neppure simpatico. Chissà . Ma tra i tanti sfizi che un miliardario può togliersi, oltre a fare beneficenza, c’è quello di produrre film. Non film qualsiasi, ma film che siano «in grado di raccontare eventi e personaggi straordinari della storia americana con l’obiettivo di offrire intrattenimento, ma anche nuove chiavi di lettura». Per questo tre anni fa ha creato The American Film Company. E il primo progetto che si è concretizzato è stato The Conspirator. Progetto per fortuna affidato a Robert Redford per la regia. Sono passati quattro anni da quando Redford aveva diretto Leoni per agnelli, intensa riflessione sulla guerra in Afghanistan e un filo evidente lega quel film, fortemente voluto e prodotto, a questo progetto non suo ma nel quale si è profondamente identificato come regista e anche come produttore.
La storia è nota. La guerra di Secessione è ufficialmente terminata con la sconfitta del sudisti confederati. Ma il conflitto ha lasciato ferite profonde e strascichi. Il 14 aprile 1865, venerdì santo, Abramo Lincoln, presidente degli Stati uniti e artefice della vittoria viene ucciso a Washington da John Wilkes Booth che gli spara con la pistola, gridando in latino «Sic semper tyrannis», motto dello stato sudista della Virginia, mentre il presidente assiste a una rappresentazione teatrale. Questo lo sapevamo tutti. Infatti il film non si dilunga più di tanto su questo elemento. Meno conosciuto per il grande pubblico il fatto che l’omicidio di Lincoln non avrebbe dovuto essere isolato. Avrebbero dovuto essere ammazzati anche il vicepresidente e il segretario di stato. Una decapitazione dei vertici politici degli Stati uniti appena usciti dalla Guerra fratricida da parte di chi non solo è stato nemico ma ha visto e subito soprusi e prevaricazioni dei vincitori, come ci era già  stato raccontato in molti film western.
Ma qui siamo in un’altra storia. Nonostante solo l’assassinio di Lincoln sia riuscito, la repressione è feroce. In particolare Edwin Stanton, ministro della giustizia, mette in atto una serie di provvedimenti totalmente antidemocratici per arrestare e condannare i colpevoli. Tra loro c’è anche Mary Surratt. La sua responsabilità  consiste nel fatto che le riunioni per organizzare gli omicidi si sono svolte nella sua pensione e che suo figlio è l’unico latitante. A difendere la donna è chiamato Frederick Aiden, ufficiale eroe di guerra nordista, ora avvocato in tempo di pace. Un po’ alla volta si rende conto che la donna, nonostante sia chiusa, non ha colpe. Ma di fronte ha un tribunale militare che non è proprio specchio di democrazia, così e anche la sua luminosa figura di combattente non è più sufficiente a preservarlo dal clima che si sta instaurando a Washington.
L’abilità  di Robert Redford, e dello sceneggiatore James Solomon, sta proprio nel mostrare quanto sia difficile mantenere i nervi saldamente democratici di fronte a un attacco durissimo. In pratica il ministro della giustizia mette in campo tutto il suo potere per perseguire un solo obiettivo, che non è quello di fare giustizia, ma di dimostrare che lo stato è in grado di reagire e di combattere i suoi nemici. Costi quel che costi. Fosse anche il sacrificio della Carta Costituzionale. In filigrana si legge quel che è avvenuto negli Stati uniti dopo l’attacco dell’11 settembre. In nome della lotta al terrorismo, oltre a un paio di guerre off-shore, sono state sacrificate una gran quantità  di libertà  e di diritti individuali che hanno causato vessazioni, arresti senza motivo, galera, torture e tutto l’armamentario che ha fatto da supporto alla causa. Gli impiccati dell’800 sembrano somigliare molto ai prigionieri iracheni strapazzati dai militari a stelle e strisce in epoca contemporanea.
E la lettura del film apre squarci inquietanti sui piani alti del potere, su come sia possibile modificare a proprio piacimento leggi e realtà , offrendo un contributo non banale a una riflessione che non è più legata a un periodo storico e a un evento specifico, bensì diventa occasione per un approfondimento che non si esaurisce nel tempo. Merito anche di un cast composto da attori strepitosi. Su tutti Robin Wright che interpreta la dignitosa Mary Surratt con un piglio straordinario e convincente nonostante una parte che si basa più sull’essere reticente e diffidente che non sull’esplicitazione dei propri sentimenti.
Negli Stati uniti il film non ha fatto particolari sconquassi al botteghino, al James McAvoy avvocato difensore il grande pubblico preferisce il McAvoy nei panni del professor X dei fumetti di X-Men. Speriamo almeno che Joe Ricketts non si penta di avere speso milioni di dollari per realizzarlo…


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Viene visto come un capriccioso narcisista quando rifiuta di essere definito direttore della fotografia: “Sono un cinematographer, uno che scrive con la luce” Figlio di un proiezionista, a settant’anni e tre Oscar (Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore) ripercorre una vita fatta di disciplina e ricerca: “Non avrei mai ideato l’illuminazione del volto di Kurtz/Brando senza conoscere Caravaggio”. Nella mia carriera ho sempre trovato il gusto e il piacere di tornare ogni volta studente, prendendomi il giusto tempo per riflettere e le pause necessarie 

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