Granai a rischio, prezzi alle stelle così il clima ci cambia la vita

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L’effetto serra è già  a tavola: le emissioni di anidride carbonica che riscaldano l’atmosfera stanno intaccando, da almeno trent’anni, la disponibilità  di cibo di un’umanità  che, ogni sera, aggiunge 219 mila nuovi inquilini al pianeta. Da tempo gli scienziati discutono dell’impatto che l’aumento della temperatura media della Terra – previsto in 2 o più gradi nei prossimi anni – potrà  avere sull’agricoltura. In realtà , questo impatto è già  in corso: secondo uno studio che David Lobell e un team di ricercatori della Stanford University si preparano a pubblicare, il solo aumento di temperatura media del pianeta – circa 0,7 gradi centigradi – registrato dal 1980 ha ridotto la produzione agricola mondiale, rispetto al livello che avrebbe raggiunto senza riscaldamento globale. La produzione è in effetti cresciuta in questi trent’anni, ma sarebbe potuta crescere maggiormente senza quello 0,7 in più sul termometro. E, per la prima volta, Lobell riesce a mettere dei numeri su questo impatto dell’effetto serra.
A temperatura invariata, anche con tutte le crisi (siccità , inondazioni) che ci sono state, avremmo raccolto il 5,5 per cento in più di frumento e il 3,8 per cento di granturco. Se prendiamo solo il mais, è l’equivalente dell’intera produzione del paese delle tortillas, cioè il Messico. È un drammatico campanello d’allarme. I numeri prodotti dai ricercatori di Stanford sono relativamente piccoli e, almeno fino a qualche tempo fa, l’agricoltura mondiale sembrava poter assorbire senza troppi danni la zavorra dell’effetto serra. Ma questo è avvenuto in un periodo, come gli ultimi 30 anni, di boom della produzione agricola mondiale. Sono stati anni, globalmente, di abbondanza, che hanno consentito agli indici di benessere mondiali di puntare verso l’alto. Questo periodo è, probabilmente, finito. Gli esperti dicono che ci stiamo avviando verso un’era di scarsità . La domanda mondiale di beni alimentari cresce, ormai, del 2 per cento l’anno, la produzione non tiene il passo, le scorte si riducono: lo conferma l’impennata dei prezzi degli ultimi tre anni.
Lobell calcola che, per ogni aumento di un grado della temperatura media, la produzione agricola mondiale possa ridursi, solo per effetto del maggior caldo, del 5 per cento: il clima più mite estende la stagione di coltura, ma il calore eccessivo incide sulla crescita delle piante, diminuisce l’acqua disponibile, favorisce l’estendersi dei parassiti. La ricerca di Stanford non trova riscontro alla tesi che il riscaldamento globale consenta di mettere a coltura terreni più settentrionali, finora improduttivi.
Le emissioni di CO2, insomma, diventano un fattore in più nel mix che sta, secondo gli esperti, compromettendo il futuro della produzione mondiale di cibo, in un momento in cui la popolazione (7 miliardi quest’anno, 9 miliardi nel 2050) continua a crescere. Le rese dei raccolti, anche nei paesi sviluppati, stanno rallentando e diminuisce l’altro elemento che potrebbe assicurare l’aumento della produzione: l’allargamento delle terre messe a coltura. Un ecologo famoso, come Lester Brown, invita a guardare le foto satellitari del pianeta: ci sono due nuovi «catini di polvere» («dust bowls» li chiamano gli americani) sulla superficie della Terra. Uno nell’Africa centrale, l’altro nel Nordovest della Cina. Ogni anno, in quest’area della Cina, oltre 3.500 chilometri quadrati si trasformano in deserto. Su tutto incombe l’incubo dell’acqua. Il Medio Oriente arabo, attraversato in questi mesi dagli sconvolgimenti politici, è, secondo Brown, la prima regione mondiale ad aver raggiunto il picco della produzione di cereali, ormai in declino inesorabile, per mancanza d’acqua. In effetti, metà  della popolazione mondiale vive, ormai, in paesi in cui le falde acquifere si stanno riducendo. Dopo le bolle finanziarie degli anni scorsi, ci troviamo a quelle che Brown chiama «bolle di cibo», situazioni, cioè, in cui il cibo viene prodotto al di là  di quello che le risorse consentirebbero. Le più grosse e pericolose sono in India e in Cina. Secondo la World Bank, in India, oltre 175 milioni di persone si nutrono con cereali, prodotti grazie ad un sovradrenaggio dell’acqua disponibile. In Cina, la cifra di persone che mangiano cereali, coltivati intaccando il livello delle falde acquifere, è di circa 130 milioni.
La ricerca di Stanford lascia, in realtà , più di un interrogativo aperto, anche se non è chiaro se questo sia motivo di conforto. Lobell e i suoi collaboratori non hanno trovato riscontro alla diminuzione di produzione di frumento e granturco negli altri due cereali, cruciali per la dieta mondiale: riso e soia, la cui produzione non sembra aver risentito dell’aumento della temperatura media mondiale. Probabilmente, l’aumento di temperatura nell’area di maggior coltivazione, ad esempio, del riso (l’Asia meridionale) è stato inferiore alla media mondiale.
È quanto è certamente avvenuto per frumento e granturco sul continente americano. La riduzione di produzione di questi due cereali è stata sensibile in Europa, in Brasile, in Cina e nei paesi vicini (in alcuni, dice Lobell, i rendimenti sono stati la metà  di quelli potenziali). Ma in Usa e Canada la temperatura e la produzione sono rimaste stabili. Le due cose indicano che la temperatura media globale non dà  conto delle possibili variazioni regionali e che l’impatto dell’effetto serra sull’agricoltura può essere estremamente diversificato. Ma indica anche quanto possano incidere il caso o contingenti situazioni atmosferiche: risparmiando Usa e Canada, l’effetto serra ha risparmiato due dei maggiori granai mondiali.
Se il continente nordamericano fosse stato colpito come l’Europa, le ripercussioni sull’agricoltura mondiale sarebbero state molto più forti. Lo si può valutare, se si prende in considerazione un elemento che Lobell ha, deliberatamente, trascurato: gli eventi climatici estremi, che molti ritengono ugualmente originati dall’effetto serra. L’ondata di calore che, l’estate scorsa, ha colpito la regione intorno a Mosca ha comportato la perdita di circa 40 milioni di tonnellate di cereali, sui 100 milioni di tonnellate che erano state previste. Il buco che si è aperto nell’offerta mondiale di frumento ha innescato la nuova rincorsa dei prezzi, che li ha riportati ai livelli del 2008. Ma se, anziché Mosca, l’ondata di calore avesse colpito Chicago, una perdita di produzione del 40 per cento avrebbe sottratto al mercato mondiale 160 milioni di tonnellate sui 400 di produzione americana previsti: il quadruplo. Con effetti sui mercati, probabilmente, da brividi: le scorte mondiali sarebbero scese a soli 52 giorni di consumo, ancora meno dei 62 giorni che, nel 2007-2008, crearono i presupposti per un aumento del 300 per cento dei prezzi dei beni alimentari.

 


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