“Subito 200 milioni o è fallimento” il documento che fa tremare il Vaticano

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MILANO – Pochi spiccioli in cassa («al primo luglio ci sono fidi disponibili per 2 milioni»). Quasi 55 milioni da trovare entro settembre per pagare stipendi e medicinali. E, soprattutto, i primi creditori alle porte: otto dei quali avrebbero già  chiesto in tribunale, e in un caso ottenuto, il rimborso “forzato” dei loro soldi. L’ultima fotografia della Caporetto del San Raffaele è un riservatissimo documento di undici pagine finito sul tavolo del consiglio della Fondazione del Monte Tabor il 15 luglio.
Un memorandum drammatico stilato per valutare «le possibili modalità  di intervento della Santa Sede». Tabelle e cifre da brividi. Corredate dalla cronaca in tempo reale dell’assalto giudiziario dei fornitori degli ultimi mesi: una pioggia di decreti ingiuntivi per un totale di 18 milioni arrivati persino da partner storici come Ibm, Roche ed Esaote e finita, dicono indiscrezioni attendibili, proprio sul tavolo di Mario Cal. Più il giallo dei 28 milioni chiesti in zona Cesarini per via giudiziaria il 29 giugno dalla Dec, la holding di costruzioni barese della famiglia De Gennaro, un’operazione che sarebbe già  entrata nel mirino della Procura.
Le pagine del memorandum sono la sintesi ad oggi più attendibile della via crucis finanziaria vissuta nelle ultime settimane dalla Fondazione Monte Tabor. Il conto alla rovescia verso il baratro, scandito dal tic-tac dell’implacabile pioggia di richieste di rientro dei creditori. Il San Raffaele, ammette il documento, non è proprio un pagatore puntuale: «i debiti scaduti sono pari a 430 milioni, 150 da oltre un anno e 117 da almeno sei mesi». Così quando a marzo l’impero del sacerdote veronese ha iniziato a tremare, diversi fornitori si sono rivolti al tribunale per far valere le loro ragioni mentre qualche banca («Unicredit», spiega la nota) smetteva di finanziarli con anticipi.
La prima parca richiesta di Esaote (45mila euro) è stata soddisfatta. Poi le cifre hanno iniziato ad aumentare. Un milione dal Consorzio Servizi sanitari, sette da Ifis-Ibm, due da Mengozzi (rifiuti sanitari) già  resi esecutivi dai giudici dal 7 luglio, 1,3 dalla Roche. Più, dulcis in fundo, l’ultima bordata da 28 milioni della Dec dei De Gennaro. «Si tratta di un credito pagato per uno dei lavori fatti per il San Raffaele – spiega Paolo Calmetta, legale della società  – e che dopo un’analisi al termine del cantiere abbiamo valutato non fosse dovuto». In ogni caso, commenta sobrio il memorandum, «la fondatezza di questa pretesa va approfondita». «È una partita di giro molto opaca – racconta una fonte attendibile che ha esaminato la pratica – visto che i 28 milioni sono stati girati senza spiegazioni cinque anni fa dalla Dec a Don Verzè e non erano mai stati chiesti indietro fino ad oggi». I De Gennaro – molto presenti nel mondo dell’edilizia pubblica ed ecclesiastica – pretendono dall’ospedale altri 5 milioni frutto di un “prestito”.
Questo rosario di decreti ingiuntivi è solo l’aperitivo, ammette sconsolato il memorandum: «le aziende farmaceutiche hanno incaricato Farmafactor per il recupero di 50 milioni. Un’escalation preoccupante perché potrebbe consentire alla Procura di presentare un’istanza di fallimento».
Il quadro è fosco e basta già  da solo a spiegare la prudenza con cui il Vaticano si sta avvicinando al dossier. La cordata Rotelli, quella sostenuta dal povero Mario Cal, si era impegnata a onorare tutta l’esposizione, oltre un miliardo. Una strada che avrebbe consentito di evitare l’intervento della Procura sul giallo del San Raffaele. Le intenzioni della Santa Sede sono meno chiare ed Enrico Bondi dedicherà  i prossimi giorni a verificare davvero quanti soldi ci sono in cassa e l’eventuale esistenza di buchi neri in bilancio.
Tempo non ce n’è molto: entro fine anno «servono 120 milioni» – scrive il documento – solo per far funzionare l’ospedale senza pagare nessun debito scaduto. Una buona idea, continua, potrebbe essere quella di stanziare 30-35 milioni per accontentare i creditori più aggressivi per «guadagnare almeno sei mesi» prima di un riscadenzamento di tutta l’esposizione. Qualcuno alla fine dovrà  mettere mano al portafoglio per evitare il fallimento. Poi si deciderà  quale strada seguire (concordato, Marzano o altro) per rimettere in carreggiata l’azienda. Ma alla fine con ogni probabilità  toccherà  ai magistrati far davvero luce sui misteri della Fondazione Monte Tabor e sul buco da un miliardo aperto dalla gestione di Don Verzè.


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