Com’è cambiata l’idea di natura

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Natura umana. Cosa dobbiamo intendere con tale espressione? Come si congiunge, l’apparente fissità  della natura, alla fluidità  dell’esperienza umana? Insomma, la nostra vita appartiene allo scenario mobile della storia o a quello, ripetitivo, della natura?
A questa domanda – al centro del prossimo festival di filosofia di Modena – la filosofia novecentesca ha dato due risposte diverse. Secondo la prima, quella umana non è propriamente una natura, ma piuttosto una condizione, definita proprio dalla distanza dalla semplice vita biologica. Per Heidegger, solo se saprà  sottrarsi ai propri vincoli naturali, anticipando l’esperienza della morte, l’uomo sperimenterà  la propria dimensione più autentica.
Hannah Arendt riprende, almeno da questo punto di vista, le tesi del maestro. Per esprimere la propria politicità  originaria, l’individuo deve oltrepassare la sfera della riproduzione biologica ed entrare nel mondo dell’azione e del discorso. Non troppo diversa, sotto questo profilo, la posizione di Sartre. Quando egli sostiene che “l’uomo è ciò che si fa”, riprende l’idea umanistica secondo la quale, a differenza di tutti gli altri animali, l’essere umano può sempre modificare la propria vita, trascendendo la situazione data con una libera scelta.
Ciò che questi discorsi implicano è una radicale storicizzazione dell’esperienza umana. Per Heidegger il nostro “esserci” ha un carattere costitutivamente temporale. È storia e non natura. Lo stesso corpo dell’uomo – non a caso sostanzialmente assente dalla sua riflessione – è qualcosa di secondario rispetto agli elementi propriamente umani dell’esistenza. È curioso che alcuni filoni della cultura postumanistica si situino nello stesso orizzonte nel momento in cui immaginano, sulla scorta degli straordinari sviluppi della biotecnologia, una sorta di liberazione dell’esistenza dal suo sostrato naturale e perfino dalla dimensione corporea.
A tale prospettiva, già  dalla fine dell’Ottocento, si oppone un’altra concezione, portata invece a identificare l’intera realtà  dell’uomo con il suo sostrato naturale. Strappato alla propria dimensione storica e spirituale, l’essere umano viene schiacciato dal suo nudo dato biologico. Naturalmente in questo caso egli non può disporre di se stesso. La sua vita è vincolata ad un elemento ereditario che non potrà  mai trascendere. A decidere di essa non sono le sue scelte volontarie e razionali, ma le sue componenti organiche e, in ultima analisi, il suo sangue. Pur lontane dalle conseguenze nefaste cui questa concezione fu portata, alcune tendenze della filosofia contemporanea fanno proprio tale modello deterministico, con la sola sostituzione del corredo genetico al dato ereditario. Se l’uomo è tanto connotato dai propri geni da non poter sfuggire alla loro influenza, indipendentemente dalle vicende della storia e dagli stimoli dell’ambiente, allora il suo destino resta segnato.
Ma in questo progetto di naturalizzazione della vita umana c’è qualcosa di ancora più preoccupante. Si tratta della tendenza ad assumere ciò che si presenta con il linguaggio scientifico della descrizione in termini di prescrizione, scivolando così dalla sfera dell’essere a quella del dover essere. Ciò che è presentato come un dato viene imposto come una norma da cui non si può derogare. Del resto da sempre l’immagine della natura umana è stata costruita, e utilizzata, in funzione di contrasto o di esclusione rispetto a categorie di uomini considerate diverse e inferiori.
A questo punto sembrerebbe che non ci sia alternativa: o si dissolve la natura nella storia con un palese effetto antirealistico o si blocca la storia nella natura con risultati gerarchici ed escludenti. In realtà  esiste una diversa possibilità , capace di non annullare nessuno dei due poli nell’esclusività  dell’altro. Si tratta della strada già  aperta da Darwin. Situando l’uomo in un orizzonte naturale costituito dalla catena delle specie viventi, egli era lontano dal contrapporre la natura alla storia. Al contrario proprio a lui si deve un concetto di “storia naturale” che non esclude, ma implica, una modificazione della natura in forme sempre casuali ed imprevedibili.
Mai come oggi è chiaro che anche gli elementi di invarianza naturale – vale a dire le caratteristiche specifiche che distinguono la nostra da tutte le altre specie viventi – possono essere sottoposti a mutazione. Ciò che qualifica la natura umana è proprio la capacità  di arricchire la propria dotazione innata, aprendo una gamma di possibilità  acquisitive che a loro volta si riflettono sulla sua stessa costituzione genetica: da questo punto di vista si può ben dire che l’uomo è geneticamente programmato a mutare di continuo la propria programmazione.
Se la storia è ampiamente determinata dalla natura, la natura è a sua volta sempre modificata dalla storia. Naturalmente, quando si parla di natura umana, bisogna tenere presenti i rischi di tale incrocio. Ma a tutto ciò sarebbe vano opporre un atteggiamento nostalgico e regressivo. La strada per un ritorno alle vecchie dicotomie che hanno strutturato il sapere moderno resta ormai preclusa. Non possiamo che confrontarci con il nuovo intreccio di pubblico e privato, persona e corpo, natura e storia, pur consapevoli delle enormi responsabilità  che ne derivano.


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