«Una crisi che mette a rischio le democrazie»

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NEW YORK — «La crisi del 2008 è stata essenzialmente economico-finanziaria. Quella di oggi nasce dai problemi irrisolti di allora, ma è una crisi essenzialmente politica. Se non viene arginata rischia di mettere in pericolo la stabilità  delle democrazie occidentali. L’America vive una spaventosa era di polarizzazione: la lotta politica si è radicalizzata fino al punto di paralizzare il governo. L’Europa ha fatto il percorso inverso, si è deideologizzata, e questo è positivo. Ma è infestata da governi deboli, mentre le logiche nazionali tornano a prendere il sopravvento. Stiamo sprofondando in una crisi di governabilità  dell’Occidente proprio mentre scopriamo di aver sbagliato la nostra analisi sulla Cina: credevamo che il regime autocratico avrebbe prodotto una leadership di predoni e di incapaci. Eravamo convinti che la diffusione del benessere avrebbe spinto la nuova classe media a chiedere più libertà . Invece Pechino è riuscita a sviluppare un sistema relativamente meritocratico con una dirigenza spesso competente. E il ceto medio è più un fattore di difesa dello “status quo” che di spinta alla democratizzazione»
Charles Kupchan, docente della Georgetown University e acuto analista di politica internazionale che venne chiamato a occuparsi dei problemi europei nella Casa Bianca di Bill Clinton, è stato uno dei primi studiosi a suonare l’allarme sui rischi della radicalizzazione del confronto politico negli Usa, come ha sottolineato anche Paul Kennedy in una recente intervista a Ennio Caretto per il Corriere.
Il suo saggio «La fine dell’era americana» pubblicato nel 2002 è stato profetico per quanto riguarda gli Usa. Meno per l’Europa che lei vedeva in ascesa e destinata a divenire più influente nel mondo.
«È vero. Oggi assistiamo a una perdita di potere politico ed economico degli Usa ma anche dell’Europa, con uno spostamento dei rapporti di forza verso l’Asia, che ha tre dimensioni. La prima è quella economica che si manifesta in modo particolarmente acuto sotto i nostri occhi proprio in questi giorni. Nella migliore delle ipotesi vivremo una ripresa lenta e accidentata. Ma dobbiamo anche chiederci se l’Occidente non stia andando verso un cambiamento più radicale del suo modello economico, un mutamento che sarà  anche di paradigma culturale in seguito a fenomeni di deindustrializzazione che stravolgono il mercato del lavoro. Io voglio credere di no, penso che ogni sistema abbia giorni buoni e cattivi. Negli anni Novanta ammiravamo il modello giapponese. Poi è toccato a quello Usa. Ora ci impressiona la Cina. Credo che nel mondo avremo coesistenza e competizione tra diversi sistemi, certo non più il dominio, assoluto negli ultimi due decenni, del modello di capitalismo liberaldemocratico. Ma, ripeto, dobbiamo chiederci se non stia avvenendo anche qualcosa di più profondo e destabilizzante».
E le altre due dimensioni?
«Sono politiche. Una riguarda l’Europa che si è frammentata — a livello di governi ma anche di velocità  delle economie — e ha perso dinamismo, fino al punto di innestare la retromarcia. Non è diventato l’attore politico di primo piano che avevo previsto nel mio libro di dieci anni fa. Altri Paesi — non solo la Cina: il Brasile, la Turchia, l’India — hanno rapidamente raggiunto una rilevanza che non avevamo immaginato. Questo cambia gli equilibri mondiali. Le tempeste sui mercati riflettono anche questo cambiamento. Il terzo fattore riguarda l’America in preda a una polarizzazione sulla quale avevo lanciato l’allarme, avendola vista nascere negli anni 90 con Clinton assediato alla Casa Bianca dal Congresso a maggioranza repubblicana di Newt Gingrich».
Ora siamo andati ben oltre. Colpa anche della debolezza della leadership di Obama?
«Purtroppo i nostri sono problemi profondi e strutturali, non quelli temporanei legati a una crisi di leadership. Problemi istituzionali, una vera crisi di governabilità . Per certi versi stiamo messi peggio dell’Europa. Che è debole, di nuovo chiusa nei diversi steccati nazionali, coi partiti maggiori insidiati da nuove minoranze radicali come quelle della destra xenofoba. Ma che ha anche saputo superare le vecchie dispute ideologiche tra destra e sinistra e, a livello di singoli Stati, ha recuperato governabilità . Qui, negli Usa, abbiamo fatto il percorso opposto. Eravamo pragmatici, sapevamo decidere nell’interesse comune. Durante la “guerra fredda” non c’erano molte differenze ideologiche tra repubblicani e democratici. Anni in cui voi in Italia eravate dilaniati dallo scontro tra comunisti e anticomunisti, mentre a Londra conservatori e “labour” litigavano su tutto, dal ruolo del mercato all’energia nucleare, al “welfare”. Oggi le ricette dei “tory” possono essere facilmente confuse con quelle di Blair o Gordon Brown. Mentre da noi scoppiano guerre ideologiche su tutto: repubblicani e democratici sembrano vivere in mondi opposti».
Perché è accaduto?
«I motivi sono vari. Visibili come l’emergere di una concezione della politica che è soprattutto “fund raising” e campagna elettorale continua. E meno visibili, come la crescente divisione regionale — il Nordest quasi tutto democratico, il Sud e il West delle montagne in mano ai repubblicani — che rendono gli Stati Uniti meno omogenei. O come il “redistricting”: un fenomeno poco noto di ridisegno dei collegi elettorali sulla base della composizione sociale delle comunità  sul territorio. Una volta erano gli elettori a scegliersi i legislatori; ora sono i legislatori che si scelgono i loro elettori».
I Paesi emergenti che fino a qualche anno fa guardavano al modello liberaldemocratico ora sembrano tentati dall’efficienza dell’autocrazia cinese.
«Credo — ripeto — che avremo competizione tra sistemi diversi. Ma sulla Cina dobbiamo ragionare. Non solo abbiamo sbagliato — come dicevo — sul ruolo del ceto medio e la competenza della classe dirigente di Pechino. Si è rivelata carente anche la nostra analisi sull’adattabilità  alla globalizzazione. Pensavamo che i sistemi liberali e decentralizzati fossero quelli maggiormente capaci di raccogliere le sfide del cambiamento e invece il sistema centralizzato di Pechino si è dimostrato a suo modo efficace, uno stabilizzatore nella crisi. Ma anche i cinesi hanno i loro problemi e io non vedo un Occidente spacciato».


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