La crociata antiaborto del texano Perry spaventa pure i repubblicani (moderati)

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NEW YORK — Dopo «Irene», a seminare il panico in America è arrivato ora l’«uragano Perry», il candidato che, ad appena due settimane dalla sua discesa in campo, sembra già  aver sbaragliato gli altri aspiranti alla «nomination» repubblicana alla Casa Bianca, compreso Mitt Romney, dato da tutti come favorito fino a Ferragosto. Il governatore del Texas trionfa in tutti i sondaggi e intanto si tuffa in una durissima polemica contro un giudice che ha bloccato una legge del suo Stato che, nel tentativo di disincentivare in ogni modo gli aborti, impone alle donne e ai medici quella che la corte federale ha giudicato un’inammissibile violazione della libertà  di espressione tutelata dalla Costituzione americana.
Perry ha fulminato Sam Sparks (giudice, peraltro, a suo tempo nominato da George Bush e tutt’altro che progressista) ribadendo la sua linea favorevole, in caso di aborto anche per stupro, non solo all’obbligo di sottoporsi a un’ecografia transvaginale, ma anche a imporre ai medici a spiegare in dettaglio alla donna incinta come avviene lo sviluppo del feto e persino a farle ascoltare il battito cardiaco, in modo da cercare di dissuaderla dalla decisione di interrompere la gravidanza.
Contemporaneamente il governatore repubblicano ha continuato a snocciolare il suo programma economico arciconservatore, mentre la lettura di «Fed Up» (Non se ne può più), il suo libro-manifesto appena dato alle stampe, sta facendo venire i brividi alla sinistra americana.
Ma comincia a esserci preoccupazione anche tra i conservatori moderati e nell’«establishment» economico che aveva scelto di puntare su un uomo d’impresa come Romney rispetto a un Rick Perry che oggi fa l’iperliberista pronto ad azzerare — dalle pensioni alla sanità  â€” ogni brandello di «Stato sociale», ma la cui biografia è densa di episodi nei quali il governatore in anni più o meno lontani si è lasciato andare a scelte stataliste, per giunta poco trasparenti.
Fin qui la prospettiva di una sfida per la Casa Bianca tra Barack Obama e un esponente della destra radicale non era stata presa più di tanto in considerazione un po’ perché i candidati potenziali — da Sarah Palin a Michele Bachmann — non sembravano avere la caratura per aspirare alla nomination, un po’ perché si riteneva che un leader integralista, non appoggiato dalla parte moderata del fronte conservatore, avrebbe finito per favorire la riconferma del presidente democratico per un secondo mandato.
Perry, però, ha sconvolto i termini dell’equazione: anche se ha assunto posizioni spesso estreme (definendo, ad esempio «incostituzionale» Medicare, l’assistenza sanitaria per gli anziani) e se ha usato espressioni durissime contro Ben Bernanke (un altro repubblicano scelto a suo tempo da Bush), affermando che, se stampasse dollari da qui alle elezioni del 2012, il capo della Federal Reserve commetterebbe «alto tradimento», nei sondaggi il governatore ha rapidamente sopravanzato tutti gli altri candidati. Il sondaggio Quinnipac, il più recente, lo dà  al 24 per cento dei consensi, sei punti più di Romney. Quello della Cnn vede, addirittura, un Romney doppiato da Perry (27 a 14) con la Palin al 10 per cento e la Bachmann al 9 insieme a Rudy Giuliani.
I giochi non sono ancora fatti, certo. Tra qualche giorno toccherà  alla Palin decidere se candidarsi mentre alcuni conservatori spaventati da Perry stanno cercando di convincere il governatore del New Jersey Chris Christie (che però continua ad opporre un fermissimo rifiuto) a scendere in campo. Per adesso l’effetto Perry ha fatto emergere soprattutto la disaffezione dell’elettorato repubblicano per Romney: accettato come il minore dei mali, ma guardato sempre con diffidenza perché considerato poco sincero, poco comunicativo e anche per la sua fede mormone.
Meglio, almeno per ora, l’evangelico Perry, che sa tenere la scena e vanta i successi economici colti negli 11 anni in cui ha governato il Texas. Anche se radicale, Perry è un avversario assai temibile per un Obama sempre più indebolito dalla crisi economica e occupazionale, proprio perché il politico repubblicano può affermare di aver guidato uno Stato molto attivo nella «job creation».
«Posti di lavoro creati soprattutto nel settore pubblico e con le commesse militari di Washington» replicano indispettiti i democratici, il cui improvviso panico è giustificato dal record di Perry che in vita sua non ha mai perso un’elezione importante. Chi, come Ruth Marcus del Washington Post, ha già  letto «Fed Up», conclude, tra l’atterrito e lo sconsolato, che George Bush, in confronto, era un «liberal» alla George McGovern.


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