“Allarme banche, non c’è più liquidità  così il Paese rischia il fallimento”

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«In Italia c’è un allarme banche. Non circola più denaro. Il rischio principale è che si diffonda il credit crunch. Rispetto a questo scenario, il fallimento di qualche banca diventa addirittura un rischio secondario. Se l’illiquidità  del sistema porta al blocco dell’economia, allora non fallisce un singolo operatore, ma fallisce l’Italia». Giuseppe Vegas, presidente della Consob, lancia un monito e chiama a raccolta governo, Bce e Banca d’Italia: «Bisogna agire, o sarà  troppo tardi».
Presidente Vegas, dunque ha ragione Alessandro Penati, che su “Repubblica” parla di una vera e propria «questione bancaria»?
«Sulle banche italiane c’è un problema, che non può non preoccuparci tutti. Il nostro sistema creditizio, tra i suoi asset, ha titoli di Stato italiani per 160 miliardi, e titoli di Stato degli altri “Pigs” per 3 miliardi. A fronte di questo, le nostre banche hanno titoli “tossici” (essenzialmente mutui subprime) per una quota pari al 6,8% del patrimonio di vigilanza, contro una media europea del 65,3%. Ora, secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall’Eba, siamo al paradosso: i titoli di Stato in portafoglio vengono considerati “tossici” per le banche italiane, peggio di quanto non lo siano i “subprime”per le banche straniere».
Toccava al governo italiano intervenire, nei mesi scorsi. Perché non l’ha fatto?
«Non sta a me rispondere. Io so solo che i criteri stabiliti dall’Eba sono oggettivamente discutibili. Ci stiamo confrontando con la Banca d’Italia, per sollecitare un intervento e per indurre un ripensamento, anche nell’Esma. Ma non è facile. Il pericolo è che vada definitivamente in tilt il circuito finanza-economia reale. In base ai criteri Eba, le banche devono rafforzare il patrimonio e ricapitalizzare. Per farlo hanno due strade: o vanno sul mercato a cercare soldi, o vendono asset. In entrambi i casi, il sentiero è strettissimo: vendere asset vuol dire ridimensionare comunque l’operatività . Ma trovare capitali sul mercato, adesso, è ancora più difficile: vuol dire limitare il circolante, rinunciare alla leva, ridurre i prestiti, e dunque strozzare il credito. E qui c’è il possibile corto-circuito: che effetto ha tutto questo su un Paese che ha bisogno come il pane della crescita?».
Un effetto devastante, che stiamo già  vedendo. Ma come pensate di far cambiare all’Eba i suoi criteri? E come si fa a evitare la recessione nel 2012, già  prevista dall’Fmi?
«Questi sono i nodi da sciogliere. Sui criteri Eba il Sistema-Paese deve battersi, a tutti i livelli: non si può avere un approccio khomeinista alla contabilità , che è un mezzo e non un fine, essendo il vero fine il benessere dei cittadini. Quanto alla recessione, l’Italia deve far bene i “compiti a casa”, come ha detto giustamente Monti. Questo vuol dire risanamento dei conti, tirando il freno a mano alla spesa pubblica. E poi sostegno allo sviluppo».
La dimensione della crisi non è solo italiana. Lei, da regolatore nazionale, che giudizio dà  del ruolo della Bce? Fa abbastanza per fronteggiare l’emergenza?
«Finora, con le regole esistenti, ha fatto quello che ha potuto. Ma è evidente che l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi periferici, sul solo mercato secondario, non basta più. Così come non basta più l’approccio puramente anti-inflazionistico della politica monetaria: capisco che i tedeschi abbiano lo scheletro di Weimer nell’armadio, ma adesso serve un salto di qualità ».
Sta dicendo che Draghi deve trasformare la Bce in un prestatore di ultima istanza, stampando moneta senza limiti?
«Sto dicendo che anche su questi temi serve un approccio nuovo, e adeguato alla fase. C’è a monte un problema di sovranità  politica e di coordinamento delle politiche fiscali nazionali. Ma c’è anche un problema di Trattati e di Statuti da rivedere. La Fed e la Banca d’Inghilterra stampano moneta. La Bce non può farlo. Questa disparità  va risolta. Allora, o cambiamo il ruolo della Bce, oppure dobbiamo accettare il rischio che l’euro salti, e ogni Paese torni alla sua valuta nazionale».
È un’ipotesi realistica, secondo lei? C’è addirittura chi ipotizza un piano segreto dei governi, per un change-over dall’euro alle vecchie valute nazionali a cavallo di Capodanno…
«Non credo alle voci. Ma certo il rischio che la moneta unica non regga, in queste condizioni, esiste. Sarebbe un disastro, ideale e materiale. Sta a Draghi evitarlo, insieme a Merkel, Sarkozy e adesso anche Monti, che fa giustamente da terzo incomodo nel direttorio franco-tedesco».
In questi mesi la Consob ha cercato di arginare la speculazione, tra il divieto di vendite allo scoperto e i limiti agli scambi ad altissima velocità . Tutto inutile: da luglio la Borsa ha perso il 32,1%, e i titoli bancari il 45,6%.
«Noi ci siamo posti l’obiettivo di fondo di non far disconnettere il link tra risparmio e economia reale. La speculazione fa parte del gioco. Ma oggettivamente alcune cose non funzionano. E su queste abbiamo cercato di intervenire. Le vendite allo scoperto sono un tema controverso. Ma una cosa è sicura: aumentano la volatilità  del sistema, e hanno una funzione sempre pro-ciclica. Per questo, dal primo dicembre estenderemo la norma: per tutte le categorie di titoli, le vendite allo scoperto dovranno avere almeno il prestito dei titoli sottostanti, e oltre una certa soglia dovranno essere denunciate all’Autorità ».
Non è un modo per chiudere la falla di una diga con un dito?
«Non penso che siano norme salvifiche, ma segnalano un’attenzione del regolatore. La stessa cosa vale per l’High Frequency Trading, cioè gli scambi di titoli ad altissima velocità  attraverso gli algoritmi. Un algoritmo può essere impazzito o hackerato. Un mercato non può essere condizionato troppo da queste variabili incontrollate: per questo abbiamo chiesto a Borsa Italiana di far pagare almeno un “fee”, quando si lancia un ordine oltre un certo importo, e poi non lo si esegue. Anche qui, siamo ai piccoli correttivi, che non risolvono il problema, però nemmeno lo ignorano. Ed è la stessa cosa che potrei dire per il controllo sui Cds cosiddetti “nudi”, cioè quelli che si comprano senza il possesso dei titoli di Stato sottostanti. Nella nuova Mifid saranno vietati: ci vorrà  tempo, ma è già  un passo avanti».
Un altro nervo scoperto è la difesa dell’italianità  delle aziende. Stiamo per perdere anche il «bastione» della golden share. Anche su questo avete provato qualche intervento, ma è stato tutto inutile: basta vedere il caso Parmalat.
«Proprio il caso Parmalat è un paradigma del dramma italiano: nessun “campione nazionale” si è fatto avanti. Questo è il nostro vero punto debole. L’intera Borsa italiana capitalizza poco più di Microsoft e Apple messi insieme. Siamo esposti allo shopping straniero. E ora rischiamo anche di più, senza la “golden share”. Diciamolo chiaro: sul piano giuridico e normativo, non abbiamo più strumenti per difenderci».
Quindi? Come si evita che l’Italia, già  depauperata del suo tessuto industriale, diventi un gigantesco outlet?
«Fa sorridere dirlo adesso, ma l’unica soluzione è allargare il mercato azionario, far entrare in Borsa nuovi operatori e nuovi imprenditori».
Intanto obbligherete almeno Edf a lanciare l’Opa su Edison?
«Stiamo esaminando il quesito. Non abbiamo ancora maturato una scelta: abbiamo un mese di tempo».
Risposta un po’ «democristiana». E su Finmeccanica cosa avete in serbo? Possibile che possa accadere uno scandalo simile, e che nessuno possa intervenire?
«C’è un’inchiesta penale in corso. I nostri poteri sono limitati, e riguardano solo il collegio sindacale. Anche in questo caso, stiamo valutando».
Presidente Vegas, voi valutate pure. Ma qui il pericolo è che tra un mese sul mercato non rimanga più niente.
«Noi faremo la nostra parte. Ma certo, per il prossimo futuro, in Italia e in Europa, la responsabilità  è nelle mani della politica. Ho fiducia in Monti».


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