Niente mutuo, affitti e rate «impossibili». La vita (a ostacoli) dei precari.

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ROMA — Pochi numeri servono a spiegare l’enormità  della missione che attende nel secondo tempo di governo il ministro del Lavoro Elsa Fornero. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi hanno scritto sul «Corriere» che un giovane italiano affronta mediamente per trovare il primo impiego un Calvario di 33 mesi. Quasi tre anni. Oltre sei volte più che negli Stati Uniti, dove di mesi ne bastano cinque. 
Ma poi, che impiego… «Tempo indeterminato» è la password per una vita normale. Ma sono due parole sempre più rare sui contratti di lavoro. Difficilissimo, per un precario, ottenere dalla banca il mutuo per comprare la casa. Arduo anche acquistare a rate una macchina. Oppure affittare un appartamento: sempre più spesso serve la garanzia dello stipendio fisso o della fideiussione bancaria. Si finisce così per vivere una vita alle dipendenze di chi può garantire per te: genitori, nonni…
Pochissimi fortunati potranno mettere su famiglia, in un’Italia dove la famiglia è sacra solo a parole: con quel che costano, i figli dovranno aspettare. Come pure cose più banali come le vacanze, previste solo nelle vite normali. E non parliamo delle prospettive. Volete un assaggio? C’è uno studio del Cerp di Torino condotto dalle ricercatrici Margherita Borella e Giovanna Segre che delinea per i precari una vecchiaia di indigenza. Dopo quarant’anni di contributi chi non ha mai avuto un posto fisso avrà  una pensione media di 7.303 euro lordi l’anno. Ovvero, 608 euro al mese. Siamo 191 euro al di sotto della pensione media pagata dall’Inps, dato che però comprende anche i trattamenti sociali. 
Per la Nidil-Cgil, invece, a un «parasubordinato» (questa la definizione tecnica di chi è senza posto fisso) che ha cominciato a lavorare nel 1996 i quarant’anni di contributi frutteranno una pensione di appena 508 euro al mese. Ovvero, il 41% della retribuzione. Che potrà  salire a 601 euro se il precario in questione avrà  iniziato l’attività  lavorativa nel 2010. Roba da leccarsi i baffi. E questo grazie al fatto che il contributo, stabilito inizialmente al 10% dello stipendio, è salito ora a un più civile 26,72%. Con un paradosso incredibile: con i contributi dei parasubordinati si tappano i buchi di categorie che pagano pensioni d’oro ma che non ce la farebbero soltanto con i loro versamenti: dirigenti d’azienda, telefonici, elettrici. Una assurda solidarietà  al contrario. I poveri precari che mantengono i ricchi pensionati ipergarantiti.
Sono dati che si traducono in un problema nazionale enorme e potenzialmente drammatico, perché mette in crisi alcuni aspetti sui quali si è finora fondata la tenuta sociale del nostro Paese. Per esempio, la capacità  di risparmiare. Quel cuscinetto di grasso che le famiglie hanno accumulato in decenni di relativa prosperità  si sta ora pericolosamente intaccando, anche a causa del sostegno che i padri e i nonni sono costretti a fornire a figli e nipoti che iniziano più tardi a lavorare e hanno occupazioni non garantite. Mentre nel 1995 una famiglia italiana poteva ancora mettere da parte il 22% delle proprie entrate, nel 2011 quella fetta di reddito accantonato si è ridotto all’11,5%. 
In compenso la platea del lavoro precario si è ingigantita a dismisura. Se poi a chi ha una occupazione saltuaria sommiamo i disoccupati e gli inoccupati, cioè quelli che non lavorano né studiano, ecco che l’area del «rischio sociale» è diventata immensa. Giusto un anno fa, su questo giornale Enrico Marro ha fatto i conti riportando fra l’altro alcune stime agghiaccianti della Cgia di Mestre. I lavoratori che non hanno un contratto a tempo indeterminato sono 3 milioni 700 mila, che significa il 16% della forza lavoro. E’ il totale dei lavoratori con contratto a termine e a part time (ma non per loro scelta), i collaboratori e le partite Iva con un solo committente: dipendenti precari mascherati. Se a questi aggiungiamo i circa due milioni che appartengono alla categoria dei Neet (Not in education, employment or training), persone che non studiano, non sono occupate né seguono percorsi formativi, siamo prossimi a 6 milioni. Ci sono poi 2,1 milioni di disoccupati e lo «zoccolo duro» della cassa integrazione: un altro mezzo milione di persone che è appesa al filo, sempre più impercettibile di ora in ora, dell’uscita dal tunnel della crisi. Il totale è impressionante. Si tratta di un numero di italiani forse più vicino ai 9 che agli 8 milioni. Paragonabile, per capirci, alla popolazione dell’intera Svezia. Certo, non è facile dire quanti di questi vivano in realtà  con il lavoro nero. Come è altrettanto difficile stabilire il vero perimetro della disoccupazione: è l’Istat, in un report concordato con Eurostat, a valutare che oltre ai 2,1 milioni di persone ufficialmente senza lavoro, ci sono in Italia 2,7 milioni di individui disponibili a svolgere un’attività  che però non ricercano. Il motivo? Sono «scoraggiati». E «scoraggiati» il triplo della media europea. 
La questione è serissima, anche perché riguarda le giovani generazioni: in un Paese sempre più refrattario a investire nel futuro, archiviando privilegi e rendite di posizione. Sono sempre Alesina e Giavazzi a sottolineare come in Italia ci sia un adulto disoccupato ogni quattro giovani senza lavoro, contro 2,4 in Europa e 1,4 in Germania. «Questo rapporto», argomentano i due, «è una misura di quanto il mercato del lavoro protegga chi un lavoro ce l’ha, cioè gli adulti. Più il rapporto è elevato, più i giovani sono esclusi». Nel 2010 l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia Vincenzo Visco, ora governatore, denunciava che «solo un quarto circa dei giovani tra 25 e 34 anni occupati nel 2008 con un contratto a tempo determinato o di collaborazione aveva trovato dopo 12 mesi un lavoro a tempo indeterminato o era lavoratore autonomo. Mentre oltre un quinto era transitato verso la disoccupazione». La frustrazione è grande. Secondo l’ultimo osservatorio sulla crisi Confesercenti-Ispo, per l’84% dei giovani con meno di 24 anni il lavoro non è altro che una speranza. Però irrealizzabile
Sergio Rizzo


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