Sugli scafi botte e minacce’

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«Minacciavano con i coltelli e le cinghie noi adulti e persino i bambini: potevamo muoverci o alzarci solo dopo il loro permesso. Ci insultavano, ci chiamavano ‘schiavi’. Mangiavamo solo pane, l’acqua era razionata ed eravamo seduti in 300 uno accanto all’altro, sulla coperta di un’imbarcazione lunga quindici metri che ci portava dalla Libia verso la Sicilia…».

Le parole del migrante clandestino partito dal Sudan e arrivato a Lampedusa con la moglie e i due figli piccoli dopo giorni di deserto e una traversata in mare durata cinque giorni, sono ormai acquisite a verbale. Un atto d’accusa senza precedenti contro un egiziano e due palestinesi – o sedicenti tali – che sarà  utilizzato in questi giorni nel primo procedimento per il reato di tratta di esseri umani istruito dalla Procura di Palermo dopo la passata, drammatica estate, di sbarchi a Lampedusa.

Il pool di magistrati guidati dall’aggiunto Vittorio Teresi, che indaga sui traffici di esseri umani tra l’Africa e l’Italia, ha contestato ai tre presunti scafisti i racconti impietosi del migrante e della moglie – la cui identità  per ora resta coperta per motivi di sicurezza – durante l’incidente probatorio (è l’udienza in camera di consiglio che serve ad acquisire una prova altrimenti difficilmente ottenibile).

E’ toccato ai sostituti procuratori Rita Fulantelli ed Emanuele Ravaglioli raccogliere descrizioni, racconti, denunce precise della coppia partita dal Sudan e arrivata in Libia per tentare il viaggio della speranza. Uno dei tanti verbali pieni di storie di vessazioni, prepotenze, ricatti subiti dalle centinaia di esseri umani in fuga da guerre, persecuzioni religiose, fame e povertà .

Sono tre i viaggi dall’Africa verso l’Italia su cui i magistrati di Palermo stanno cercando di fare luce contestando un reato adottato dai paesi dell’Unione Europea nell’aprile 2011: avvennero l’1, il 4 e il 6 agosto 2011, sono costati la vita a 27 migranti e a chissà  quante altre centinaia di uomini ormai classificati come dispersi.

Il primo incidente probatorio ricostruisce cosa avvenne durante il viaggio finito il 6 agosto al largo di Lampedusa. I clandestini finora interrogati hanno raccontato la paura e le violenze che avrebbero subito in mare aperto da parte dei tre indagati: Mohamed Kamis, che ha dichiarato di essere egiziano; Eldib Mohamed e Eldib Haytham, palestinesi, in cella dopo l’ordine di arresto emesso su ordine della Procura di Agrigento.

Ha raccontato il testimone sudanese: «Siamo partiti dalla Libia, c’era la fila per imbarcarsi sul peschereccio su cui siamo saliti io, mia moglie, i miei due bambini. Durante il viaggio ho capito che stava finendo il carburante, ho chiesto di farci tornare verso terra, mi hanno preso a botte, minacciato col coltello perché dovevo stare zitto. Eravamo costantemente minacciati, ci picchiavano, ci davano da mangiare biscotti e un po’ d’acqua. Mio figlio per 24 ore è rimasto senza latte. Per il viaggio ho pagato mille dinari (quasi 500 euro, ndr)».

Il secondo incidente probatorio si terrà  il 5 marzo davanti al gup: dovranno essere sentiti 40 testimoni, tanti sono i migranti rintracciati dei 367 che erano a bordo del peschereccio soccorso nel Canale di Sicilia il 4 agosto e il cui unico scafista indagato è un sedicente tunisino, Salim Bobaker.
Sull’imbarcazione, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, i migranti sarebbero stati stipati per cinque giorni di viaggio e al loro arrivo raccontarono di un’altra imbarcazione da cui migranti morti di fame e di sete sono stati gettati in mare dai sopravvissuti.

Il terzo procedimento ricostruisce il viaggio della speranza del barcone soccorso dalla Guardia Costiera a 70 miglia da Lampedusa l’1 agosto e arrivato in porto con un terribile carico di morti. Partiti da Tripoli, in 25, tutti maschi e tutti giovani, vennero chiusi dagli scafisti nella stiva della barca di 15 metri e morirono asfissiati.


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