Il racket delle foreste

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Il rapporto diffuso martedì dalla Banca Mondiale sotto il titolo Justice for Forests, «Giustizia per le foreste», spiega infatti che buona parte della deforestazione illegale è gestita dal crimine organizzato, e che una buona fetta dei profitti vanno nelle tasche di funzionari corrotti.
Guardate su scala mondiale, le dimensioni della deforestazione illegale sono impressionanti: ogni due secondo un’area di foresta grande quanto un campo di calcio finisce sotto le motoseghe, quantifica la Banca, che cita tra i paesi più toccati l’Indonesia, il Madagascar, e diversi paesi dell’Africa occidentale. Non che sia una novità  – ampi studi della stessa Banca Mondiale negli ultimi 15 o vent’anni hanno documentano il fenomeno della deforestazione illegale. Questo studio si concentra però sugli strumenti legali per combattere tale scempio, cioè la battaglia al crimine organizzato. Lo studio afferma che bisogna guardare oltre il livello più basso dell’illegalità  e rintracciare dove vanno a finire i profitti generati dalla deforestazione illegale. Insomma, seguire la pista del «denaro sporco», perseguire le organizzazioni criminali che profittano del taglio del legname su larga scala, confiscare i guadagni illeciti. Spiega che in alcuni paesi il taglio illegale può rappresentare fino al 90 per cento del reddito dell’industria forestale – e si tratta ovviamente di denaro non tassato. Il nuovo rapporto quindi chiede ai governi e alle istituzioni legali di combattere questo specifico settore del crimine organizzato come si fa con altri settori di attività  illegali internazionalizzati: migliorare la cooperazione regionale e internazionale tra le agenzie investigative e le magistrature, scambiare informazioni, e così via. «Dobbiamo combattere il crimine organizzato nella deforestazione illegale proprio come lo facciamo per il traffico di droga e i vari racket mondiali», ha commentato Jean Pesme, capo della divisione «Integrità  del mercato» della Banca Mondiale, la divisione che si occupa di come combattere i flussi finanziari illeciti (ogni ironia sull’integrità  dei mercati «leciti» è perfettamente giustificata, ma questo è un altro discorso). Lo studio sottolinea anche come le stime del reddito generato dalla deforestazione illegale non rendono appieno l’idea: dicono quanto denaro viene dal commercio di quel legname, ma non rende l’idea degli enormi costi ambientali, economici e sociali legati al taglio selvaggio: la minaccia alla biodiversità , laggravarsi del riscaldamento globale del clima, la perdita di fonti di sopravvivenza per le popolazioni rurali che vivono vicino alle foreste – e il clima di intimidazione che si crea se queste provano a protestare. Parla degli effetti della corruzione spicciola, i funzionari a basso livelli, e quella ai livelli più alti dei governi coinvolto. E insiste che proprio per le dimensioni e le ramificazioni di questa attiovità , non basta guardare a ciò che avviene sul terreno ma bisgna guardare i grandi guadagni lleciti che la deforestazione genera, per individuare chi regge i giochi. L’Unione europea ad esempio ha introdotto norme che impongono alle aziende di acquistare solo legname di cuui si possa dimostrare che è stato tagliato legalmente: questo rimanda all’affidabilità  delle certificazioni, ma è senza dubbiio un buon passo e la Banca Mondiale chiede al Giappone, uno dei maggiori consumatori di legname, di fare altrettanto. Molti attivisti guardano anche alla Cina, un altro grande acquirente di legname (spesso tagliato da aziende cinesi in molti paesi del sud-est asiatico). Ma basterà  una Interpol delle foreste?


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