«Brutta vittoria» per Romney

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NEW YORK — Olympia Snowe: «Basta con questa politica radicalizzata, che non funziona più: non mi ricandido». Nel giorno in cui Mitt Romney, scacciato l’incubo di una sconfitta «casalinga» in Michigan, torna il favorito per la «nomination» repubblicana e lancia in Ohio la volata verso il «Supermartedì» (il prossimo 6 marzo), quando 10 Stati andranno alle urne, un suo spazio se lo conquista la notizia dell’abbandono della politica da parte della senatrice repubblicana del Maine: uno dei pochi moderati rimasti nel fronte conservatore che ancora cercavano il dialogo «bipartisan» al Congresso.
Una notizia che fa riflettere perché, al di là  della debolezza dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, dà  l’idea di una destra che, entrata di slancio in una stagione elettorale che credeva di poter dominare, si è pian piano trovata sempre più smarrita, senza bussola. È quasi una crisi di identità  quella dei conservatori che, pure, erano stati rilanciati un anno e mezzo fa dall’iniezione di energia dei Tea Party. Quella forza, però, non è mai stata metabolizzata dal partito. I repubblicani si sono, così, sempre più radicalizzati lasciando i moderati (che sono ancora molti) senza voce e molto a disagio.
Fin qui il problema è stato mascherato attribuendo tutte le colpe al conflitto delle personalità  in corsa per la «nomination» repubblicana. Le stralunate campagne di Santorum e Gingrich venivano imputate ai limiti dei due ex del Congresso. Stesso discorso per l’incapacità  di Mitt Romney di sedurre la maggioranza dell’elettorato conservatore.
Si invocava — e si invoca tuttora — una figura esterna capace di galvanizzare: un personaggio da tirare fuori da qualche cilindro. In realtà  anche i possibili «cavalieri bianchi» di cui si è parlato fin qui (da Jeb Bush a Mitch Daniels) sono dei repubblicani «ragionevoli» che probabilmente non soddisferebbero i radicali che oggi «fanno tendenza» nel partito. Ora, oltretutto, vincendo non solo in Arizona (47 per cento dei voti contro il 26 di Santorum e il 17 di Gingrich), ma anche nell’incerta sfida del Michigan (Santorum battuto 41 a 38 con Gingrich al 6 per cento e Ron Paul all’11 che si sono divisi le briciole), Romney torna a essere il favorito per la «nomination» repubblicana.
Se avesse perso anche il Michigan dove è nato e cresciuto, la frana delle sconfitte in Minnesota, Colorado e Missouri sarebbe potuta diventare una valanga. Ora la frana è stata arginata. Se evita un altro crollo nel «Supermartedì», l’ex governatore del Massachusetts può riprendere la sua corsa. Mitt tira un sospiro di sollievo, ma la sua viene definita «una brutta vittoria» da siti autorevoli come Politico.com, mentre in casa repubblicana si respira più rassegnazione che sollievo.
Defenestrare Barack Obama, operazione che sembrava possibile coi mercati e l’occupazione in picchiata e l’opposizione repubblicana all’offensiva, è diventata improvvisamente una missione proibitiva adesso che l’economia è in ripresa e la destra si affida a un candidato mediocre che guida un fronte politico diviso. All’improvvisa depressione dei repubblicani corrisponde l’altrettanto improvvisa euforia tra i democratici: fino a qualche settimana fa si preparavano a un’altra sconfitta, ora sognano di riconquistare, oltre alla Casa Bianca, anche la maggioranza alla Camera.
Ma gli strateghi di Obama restano coi piedi per terra: se l’economia torna a peggiorare, per il presidente ci sarà  comunque da soffrire. Anche perché tra otto mesi gli elettori di destra avranno probabilmente dimenticato incertezze e incidenti di percorso di Mitt Romney.


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