Perché nessuno tocca gli statali

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In un contesto internazionale in cui le imprese faticano a competere (torneremo sul perché questo avvenga), il mercato del lavoro deve svolgere una funzione fondamentale, e cioè riallocare il lavoro da imprese e settori poco produttivi a imprese e settori più produttivi. Obiettivo di una buona riforma del mercato del lavoro è garantire che questo possa avvenire senza che i costi della riallocazione, che sono elevatissimi, siano addossati in larga parte sulle spalle dei lavoratori. Difendere invece meccanismi di protezione del lavoro che limitano la sua riallocazione produttiva (come la cassa integrazione, nelle sue varie forme) significa ridurre la competitività  del nostro sistema produttivo e di conseguenza, purtroppo, condannare i lavoratori alla marginalità  delle lotte in fabbrica e delle dispute giudiziali di diritto del lavoro: anni su una gru e/o in tribunale nella speranza di un reintegro.
La difesa dei lavoratori richiede una maggiore e più sofisticata analisi, vorrei dire analisi teorica a relativamente largo respiro, da parte anche di coloro che li rappresentano. Pensare che il problema del precariato possa essere risolto con un tratto di penna, semplicemente rendendo a tempo indeterminato i contratti precari, significa vivere in un mondo delle favole in cui non esistono vincoli di bilancio. Guardare alla crisi della grande industria in Italia, senza chiedersi perché per una Fiat che medita di andarsene dall’Italia non c’è qualcun altro che pensa di fare investimenti produttivi nel nostro Paese non serve né ai lavoratori né al Paese. L’Italia ha perso nel corso degli ultimi quindici anni investimenti diretti esteri a iosa, senza colpo ferire. I nostri lavoratori non sono certo peggiori di quelli francesi o tedeschi. Né il mandolino, la pizza, la pasta, il vino rosso, e il Colosseo hanno perso la loro capacità  di attrazione dei manager stranieri. Non sarà  finalmente giunto il momento di chiedersi seriamente perché l’Italia non attrae imprese straniere? 
Il governo, da parte sua, dopo una prova di forza nei confronti dei rappresentanti sindacali del settore privato, reagisce con solerte timore alla notizia che forse la riforma così congegnata sia in punto di legge applicabile anche al settore pubblico. No, il pubblico non si tocca, ci mancherebbe. Il settore pubblico vive col supporto della politica tutta e ha rappresentanti che capiscono bene che gli interessi dei lavoratori pubblici sono spesso opposti a quelli del privato. Loro la guerra tra poveri la sanno fare; anzi, l’hanno essenzialmente vinta. (Solo oggi la Cisl difende l’Articolo 18; dopo aver compreso come la sua parziale rimozione sarebbe potuta servire da chiavistello per una operazione simile nel settore pubblico).
È vero che questa riforma del lavoro, nel pubblico, non avrebbe senso. In cosa consisterebbe, allo stato delle cose, un licenziamento per motivi economici nel settore pubblico? Ma questo non toglie che il cuore della questione stia proprio lì, in un settore pubblico ipertrofico e spaventosamente inefficiente che drena risorse al settore privato. Il settore pubblico non compete sui mercati internazionali come quello privato; anche in questo è privilegiato. E proprio per questo è necessario un enorme sforzo di riforma che parta dalla attenta (per quanto imperfetta) misurazione della sua produttività  e da intelligenti quanto sostanziali tagli alle risorse. 
Si tratta di una questione di giustizia, naturalmente, perché osservare il video che ritrae alcuni dipendenti del Comune di Roma che timbrano il cartellino senza nemmeno togliersi il casco mentre i lavoratori del privato si aggrappano a imprese soffocate da tasse esose e dalla competizione internazionale, fa ribollire il sangue. Ma si tratta soprattutto di una questione economica fondamentale: il carico fiscale di cui il settore pubblico gode è una delle ragioni fondamentali per cui il settore privato non riesce a competere nei mercati internazionali. Non solo, ma l’inefficienza del settore pubblico (si pensi alla giustizia civile, ai trasporti, ma anche alla scuola) è una delle principali ragioni per cui le imprese straniere non si sognano di investire in Italia. Il cerchio si chiude allora: la riduzione della spesa (e l’aumento dell’efficienza) nel settore pubblico sono condizioni necessarie perché il settore privato sia messo in condizione di generare posti di lavoro e perché si liberino risorse da utilizzare per costituire una rete di welfare che permetta la riallocazione del lavoro (privato ma anche pubblico) verso imprese e settori produttivi senza eccessivi costi sui lavoratori. 
Se un maggiore sforzo di analisi da parte del sindacato è necessario per proteggere i lavoratori del settore privato, a questo governo, che invece ha ben chiara la situazione economica del Paese, è opportuno chiedere maggior coraggio. Dopotutto, quella larga parte della popolazione che, su questi temi, ha seguito addirittura le urla scomposte del ministro Brunetta, seguirebbe a fortiori una seria e ragionata proposta di riforma del settore pubblico di pari passo a quella del mercato del lavoro privato.


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