Siria, ecco il catalogo degli orrori. Tutti i sistemi di tortura di Assad

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Il 15 marzo 2011 la protesta iniziata nella cittadina di Deraa, al confine giordano nel Sud, si estese ad altre città  nel primo, tanto atteso Giorno della Rabbia del popolo di Siria. Una rabbia che non si è ancora spenta, dopo almeno 7.500 civili uccisi (secondo le Nazioni Unite) o 6.500 (secondo le rivelazioni più caute di Amnesty). E dopo decine di migliaia di profughi: l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr) proprio ieri ne ha stimati 230 mila, tra quelli interni e quelli riusciti a fuggire. Lungo i confini con il Libano e la Turchia — denuncia un’altra organizzazione internazionale, Human Rights Watch (Hrw) — il regime di Damasco ha piazzato intanto mine antiuomo: già  molti civili in fuga sono stati ammazzati da quegli ordigni banditi a livello internazionale.
«Volevo morire» è il titolo dato da Amnesty al nuovo rapporto con le testimonianze di molti di quei siriani scappati, intervistati in Giordania in febbraio dai suoi attivisti che in Siria non possono entrare. Un titolo che esprime i sentimenti provati da Tareq (il nome è fittizio), imprenditore 27enne di Tartus, arrestato tre volte e per tre volte oggetto di abusi intollerabili al punto di avergli fatto desiderare la morte. «Non ho nemmeno informato i miei aguzzini dei farmaci salvavita che devo prendere ogni giorno», ha raccontato. Una tentazione di farla finita condivisa da Al Shami: «Odiavo la prigione con tutte le mie forze: ho pensato di arrampicarmi sul muro e buttarmi giù», ha ammesso l’ingegnere 40enne detenuto nella capitale per sette settimane.
Tareq e Al Shami, come lo studente 18enne Karim, l’insegnante in pensione Najati di 65 anni, il decoratore 40enne Abu Al Najem e gli altri del gruppo, illustrano nei dettagli le torture. A partire dalla «festa di ricevimento» all’arrivo nel centro di detenzione, con pugni, botte, bastonate, colpi di frusta e cavi intrecciati per 24 ore di fila, sul corpo nudo o quasi. Un trattamento standard, che riflette un modello stabilito, sostiene Amnesty. Non solo: «L’esperienza delle tante persone arrestate nel corso dell’ultimo anno è ora molto simile a quella subita dai prigionieri sotto l’ex presidente Hafez Al Assad; un incubo di torture sistematiche», denuncia Ann Harrison, vicedirettrice per il Medio Oriente e il Nord Africa dell’organizzazione. Molte di quelle tecniche erano state infatti accantonate quando nel 2000 il giovane Bashar successe al padre, il terribile e spietato raìs che solo a Hamà  sterminò nel febbraio 1982 decine di migliaia di persone. Ma già  nel 2004 contro i curdi, e poi nell’ultimo anno, l’ex oftalmologo diventato raìs è tornato ai metodi antichi. Come le varie forme di elettroshock, o lo shabeh («fantasma», con il prigioniero appeso a un gancio in modo che non tocchi terra e quindi picchiato), il dulab (il detenuto infilato in uno pneumatico e seviziato), il tappeto volante (uno strumento di legno che costringe a piegarsi in modo innaturale), la crocefissione. E tutto questo, dicono i testimoni, ormai è una routine collaudata non solo nelle innumerevoli sedi dei tanti servizi segreti ma perfino negli ospedali con gli oppositori feriti. Nell’ultimo anno sono poi diventate comuni le torture sessuali. Tareq ha raccontato che in luglio, prigioniero dei servizi segreti militari a Damasco, fu costretto ad assistere allo stupro di un altro detenuto. «Gli hanno abbassato i pantaloni, era ferito a una coscia. Poi l’ufficiale l’ha violentato mentre lui non poteva far altro che piangere e sbattere la testa sul muro».
Quanti sono morti tra le mani dei torturatori? Amnesty dice che finora sono documentati 276 nomi. Ma con i tanti desaparecidos degli ultimi mesi saranno «sicuramente molti di più». Di certo c’è invece che al di là  dei numeri «le ultime testimonianze dei sopravvissuti alla tortura costituiscono un’ulteriore prova dei crimini contro l’umanità  commessi da Damasco». Crimini per i quali l’organizzazione è tra i tanti a volere che la Siria sia deferita alla Corte penale internazionale e finché questo non sarà  possibile, viste le divisioni tra diplomazie, che almeno la Commissione d’inchiesta Onu continui a indagare e accumulare prove. «Sarà  una garanzia che i colpevoli saranno chiamati a rispondere del loro operato».


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