Spari al consigliere Un sospettato «C’entra il lavoro»
TORINO — «Ma a lei risulta che l’avvocato avesse una doppia vita»?
Questa domanda, Niccolò Manassero non se l’aspettava proprio, la considerava fuori dal novero delle cose possibili. Il suo vicino di casa, il dirimpettaio con il quale divide il ballatoio, non è esattamente il tipo d’uomo che autorizzi pensieri maliziosi o illazioni di qualunque genere. Ai poliziotti che l’hanno convocato in questura, ha risposto parlando di una persona specchiata, «credo di avere usato proprio questo aggettivo», sulla quale nessuno ha mai nutrito alcun sospetto.
Alto, allampanato, Manassero è un archeologo di 35 anni e un personaggio importante di questo mistero che sta virando velocemente verso il dramma. Perché il generale sospiro di sollievo seguito all’allontanarsi dell’ombra del terrorismo ha fatto trascurare anche le reali condizioni di Alberto Musy. Che sta male, molto male, è ancora in pericolo di vita e qualora ce la facesse potrebbe riportare danni permanenti.
È Manassero che mercoledì mattina apre la porta all’attentatore mascherato da pony express, è lui il primo a soccorrere Musy dopo i sei spari che sono risuonati nell’androne della palazzina di via Barbaroux. «Pacco per voi, mi ha detto solo questo. Io sono stato svegliato dal suono del videocitofono. Aspettavo dei documenti dall’estero per il mio lavoro, pensavo di trattasse di quello. Mi sono alzato, la mia fidanzata dormiva ancora, e ho sentito questa voce. Italiano, nessuna influenza straniera, a me sembrava giovane. Il tempo di infilarmi i pantaloni, aprire la porta, e tutto era già successo, saranno passati al massimo due minuti».
La polizia stima il tempo di attesa nell’androne in quattro minuti, ma comunque il dettaglio di questa breve sosta non è ininfluente, perché sembra davvero un punto a favore dell’ipotesi di un incontro casuale e sfortunato, non ancora del tutto escluso.
L’evidenza dei fatti, un uomo che in ospedale sta lottando per la propria sopravvivenza, impone di andare avanti, di esercitare a fin di bene il sospetto. Ieri due agenti della squadra mobile sono entrati nello studio legale di Musy chiedendo copia dei ruolini di tutti i dipendenti, passati e presenti, e di alcune pratiche, le più delicate.
Le lunghe deposizioni dei familiari e dei colleghi di studio hanno fatto emergere il profilo di alcuni uomini che potevano nutrire rancore verso l’avvocato. «Si sentivano danneggiati, se non rovinati, dalla sua attività professionale» dice il questore Aldo Faraoni.
La prima giornata si è sviluppata intorno a questa rosa di nomi, senza troppe aspettative, destinate comunque a essere deluse. Tutti i potenziali sospettati hanno un alibi credibile, oltre a scarse velleità omicide. Tranne uno, la persona sulla quale si sta lavorando in queste ore, con la questura che ha chiesto al magistrato l’autorizzazione a compiere indagini mirate.
Una sola persona, un solo nome, ma anche qui si naviga a vista, per un processo di deduzione logica che non esclude neppure la teoria dell’uomo sbagliato, alimentata anche dal bizzarro comportamento dell’attentatore, andatura caracollante, casco sempre in testa prima e dopo l’agguato, dove si è mostrato in luoghi pubblici senza troppi problemi. Forse quel pacco, che probabilmente conteneva la pistola, non era per Musy.
Se così fosse, allora bisogna trovare un destinatario. Uno, nessuno, oppure tutti. E così anche Manassero e la sua fidanzata, seguiti dagli altri inquilini del palazzo, sono stati riconvocati in questura. Per parlare di se stessi e sentirsi rivolgere la domanda iniziale, ma questa volta sul loro conto.
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