Missione Obama: ricucire le minoranze

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LOS ANGELES. Con l’intervento di Michelle Obama a Charlotte ha preso il via la convention in cui il presidente cercherà  di ricomporre il mosaico della coalizione che quattro anni fa gli diede una storica vittoria su John McCain. Dovrà  farlo senza poter contare sul fattore messianico che allora riversò su di lui, sulla sua immagine di idealistico outsider, le speranze di rinnovamento di ampie fasce di elettori disillusi e marginali e, ancora più importante, di molti che fin li erano stati non-votanti, per apatia, diffidenza o limiti di età .
Delle miriadi di segmenti in cui l’elettorato americano viene suddiviso, analizzato e classificato, quello con cui Obama stravinse in ogni stato fu proprio il voto dei giovani che si riversarono ai seggi in numeri record. Fu il vero dato storico del fenomeno Obama, che fece di lui il candidato e presidente del futuro, in senso anche prettamente anagrafico. Avere dalla propria parte i giovani offre anche il vantaggio di un posizionamento strategico nelle culture wars che i repubblicani si ostinano a istigare. La base giovanile è istintivamente progressista su matrimoni gay, aborto e immigrazione, i cavalli di battaglia della destra integralista che come dimostrato dal programma votato a Tampa controlla ormai la piattaforma ideologica repubblicana. Quindi le posizioni «tattiche» adottate da Obama quest’anno (appoggio ai matrimoni gay, difesa delle donne e amnistia di fatto per gli studenti «clandestini») sono rivolte alle minoranze direttamente interessate ma in senso più ampio ai giovani in generale. I ragazzi però, o meglio la loro comprovata vocazione all’apatia, costituiscono questa volta anche uno dei maggiori potenziali ostacoli alla rielezione: se dovessero tornare all’assenteismo che tradizionalmente li contraddistingue verrebbe a mancare uno dei tasselli fondamentali della coalizione obamiana. Per questo nella convention democratica saranno abbondanti le facce under 30, specialmente a confronto del congresso gerontologico visto a Tampa. Molto più vario sarà  anche il loro colorito, per entrambi i partiti infatti la politica elettorale, al di là  della piattaforma ideologica, è in definitiva un calcolo della somma delle parti. Così mentre i repubblicani hanno consolidato la base reazionaria seguendo la deriva del Tea Party a cui cercheranno di aggiungere un numero sufficiente di delusi e disillusi, soprattutto fra gli elettori bianchi, i democratici a Charlotte dovranno coniugare la tradizionale base di liberal e sindacati con una «maggioranza di minoranze». E d’altronde questo ossimoro è il dato che più di ogni altro definisce il presente americano, nella fattispecie la realtà  per cui un numero crescente di stati registra la fine della maggioranza bianca. Il modello applicabile è quello californiano dove i bianchi sono passati da qualche anno a essere solo la maggiore di un costellazione di minoranze, meno quindi di asiatici, neri e ispanici presi assieme. E l’equilibrio etnico è il fattore da cui discendono molte dinamiche della società  multiculturale.
In California, ad esempio, le arcigne politiche anti immigrati istituite dall’ultimo governatore repubblicano Pete Wilson (negli anni 80) hanno provocato una reazione tale da condannare il Gop californiano allo status di minoranza permanente (il mandato «hollywoodiano» di Schwarzenegger è troppo anomalo per contare in questo ambito).
Non sorprende quindi che gli ispanici, «minoranza» ormai più numerosa del paese e quella in maggior crescita, siano un elemento determinante anche nella strategia nazionale dei democratici. Non a caso sul palco di Charlotte i latinos saranno ben visibili, dalla casalinga disperata e democratica militante Eva Longoria a Julian Castro, il sindaco di San Antonio, la città  più ispanica d’America che ieri ha aperto i giochi. Un altro sindaco, Antonio Villaraigosa di Los Angeles Carolina ricoprirà  il prestigioso ruolo di chairman della convention. Il 59enne Villaraigosa, figlio lui stesso di messicani clandestinamente immigrati è forse il principale beneficiario della necessità  del partito di ingraziarsi gli elettori di discendenza latinoamericana. Quattro anni fa aveva puntato su Hillary Clnton che lo aveva nominato condirettore della propria campagna elettorale, attualmente è presidente dell’associazione dei sindaci americani e in un plausibile futuro aspira lui stesso a diventare candidato presidenziale. Sindaco della seconda città  del paese, Villaraigosa è una figura emblematica inoltre delle dinamiche delle amministrazioni locali di «sinistra» fautrici da un lato di tradizionali posizioni progressiste (contro la pena di morte, per i matrimoni gay) mentre dall’altro fanno fronte alle catastrofiche crisi di bilancio partecipando allo smantellamento della rete sociale. In uno stato in cui solo quest’estate ben tre città  hanno dichiarato bancarotta, Villaraigosa ha implementato forti tagli a servizi e riforme delle pensioni pubbliche, politiche di rigore fiscale che gli sono valse l’opposizione di quegli stessi sindacati che ne avevano reso possibile l’ascesa. Una posizione molto simile a quella dello stesso presidente che questa settimana si troverà  a dover bilanciare la realtà  della crisi con le rivendicazioni dei sindacati, la tradizionale base democratica, costretti sempre di più a battaglie di retroguardia. A loro il presidente potrà  offrire il salvataggio dell’industria automobilistica che dopo l’intervento del governo ha appena registrato un incredibile ventinovesimo mese consecutivo di crescita. Ma la convention dovrà  riuscire a fare molto di più e cioè riattivare la narrativa di un Obama paladino e difensore delle classi medie a rischio di estinzione se dovesse passare il programma di liberismo radicale presentato a Tampa.


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