La finanza-casinò dei derivati

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Viene riconosciuta la gigantesca asimmetria informativa tra le grandi banche che maneggiano e vendono derivati e chi li acquista. Più in generale la sentenza riapre il dibattito sui danni che tali strumenti possono provocare.

 Parliamo di contratti finanziari nati come assicurazioni contro i rischi. Ho un pastificio, e intendo proteggermi da un possibile aumento dei prezzi del grano. Acquisto un derivato che mi da il diritto di comprare il grano tra un mese a un prezzo fissato già  oggi. In cambio di una commissione, la banca che me lo vende si assume quindi i rischi delle oscillazioni dei prezzi. Più in generale i derivati danno il diritto o la possibilità  di comprare, vendere o scambiare qualcosa in una data futura, fissando prezzo e condizioni già  al momento dell’acquisto del derivato stesso.

Nel caso degli enti locali, si scambia un debito a tasso fisso con uno a tasso variabile, spostando così sulla controparte il rischio di oscillazione dei tassi. Tali contratti però spesso contengono clausole e costi occulti difficilissimi da comprendere per chi, con limitate capacità  finanziare, li acquista.
Soprattutto, i derivati sono gli strumenti ideali della speculazione, permettendo di scommettere su un evento futuro, dal prezzo del petrolio a quello del cibo al fallimento di Stati sovrani. Oggi nel 99% dei casi non c’è la consegna del sottostante, ovvero su 100 derivati sul grano, uno si chiude con la consegna materiale del prodotto, gli altri 99 sono pure scommesse sul suo prezzo futuro.
Il Pil dell’intero pianeta vale 63.000 miliardi di dollari. Una singola banca statunitense controlla derivati per oltre 70.000 miliardi di dollari. Sommando l’esposizione in derivati di quattro banche il totale supera i 200.000 miliardi. Il debito pubblico italiano è circa l’1% di questa cifra. Siamo sicuri, come ci ripetono ossessivamente media e politici, che i problemi attuali risiedano nella finanza pubblica e negli «eccessivi» debiti sovrani?
In realtà  una sterminata massa di scommesse esaspera l’instabilità  dei prezzi. Non è un fastidioso effetto collaterale, ma il cuore stesso della finanza globale. La speculazione si nutre delle oscillazioni dei prezzi. Più tali oscillazioni sono ampie e veloci, più posso guadagnare. Più creo disastri tramite i derivati più i prezzi impazziscono, più posso estrarre profitti scommettendo sulle variazioni future dei prezzi stessi, più diventa interessante continuare a giocare, in una spirale senza fine.
Le proposte per arrestare questa follia ci sarebbero, a partire da una tassa sulle transazioni in derivati per frenare le operazioni speculative di breve termine. Peccato che la proposta di tassa sulle transazioni finanziarie inserita nella legge di stabilità  escluda quasi interamente i derivati. Il motivo ufficiale per non limitarne l’utilizzo è che servono alle imprese per coprirsi dai rischi. Nel 2000 in Italia circolavano derivati per 1.400 miliardi di dollari. Nel 2011 l’ammontare ha superato gli 11.000 miliardi. Il 685% di aumento in undici anni, a fronte di una crescita del 40% dell’economia reale. Forse nel 2000 le imprese italiane si trovavano in maggiori difficoltà ? O, esattamente al contrario, è proprio lo sviluppo di una finanza ipertrofica e fine a sé stessa la base della crisi attuale?
Di fatto, se oggi un’impresa deve acquistare un derivato è per coprirsi dai rischi di instabilità  dovuti in primo luogo all’eccesso di derivati sui mercati. La logica è la stessa della lobby delle armi negli Usa: per evitare future stragi nelle scuole non bisogna limitare la diffusione delle armi, ma al contrario armare anche insegnanti e bidelli.
Non possiamo condannare i derivati unicamente per l’uso che ne viene fatto nel 99% dei casi. Al di là  della battuta, da trent’anni siamo immersi nel dogma neoliberista secondo il quale i mercati devono essere lasciati liberi e senza regole perché sono “efficienti”. In italiano l’efficienza misura la quantità  di risorse necessarie a portare a termine una data azione. Nel limitare i rischi, i derivati lavorano con un’efficienza del’1%. Il rimanente 99% è superfluo o più spesso nocivo.
Sono questi i tanto magnificati «mercati efficienti»? È forse necessario risalire alla preistoria per trovare un uomo disposto a compiere uno sforzo di 100 per produrre 1. 
La finanza, come strumento al servizio dell’economia, è di fatto una delle attività  più inefficienti che mente umana abbia mai concepito. Non solo. Visti i danni che provoca e il numero di persone escluse dall’accesso al credito, è altrettanto inefficace. Nell’interesse anche dello stesso sistema finanziario, non sarebbe ora di cambiare radicalmente strada?


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