Un ghetto senza luce per 12 mila rom nella capitale europea della cultura

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KOÅ ICE (Slovacchia) — Il sole sorride sull’arancio e l’azzurro dei fiori, tra case bianche, alberi e farfalle; e poi treni gialli e verdi, gatti antropomorfi, semafori, mamme con lunghe gonne colorate che passeggiano sull’erba scintillante. Sono i disegni dei bambini della scuola materna. Fuori, il ghetto.
Grigi palazzoni a sei piani tutti uguali, cupe schiere di cemento che dalle finestre sventrate guardano aiuole rinsecchite e strade sporche. Monumento all’«edilizia razionale» sovietica, il Lunà­k IX fu pensato alla fine degli anni Settanta come quartiere modello per accogliere duemila tra agenti, militari e zingari destinati all’«assimilazione dolce». Oggi, a vent’anni dalla caduta del comunismo e dal successivo divorzio di velluto tra cechi e slovacchi, Lunà­k IX è il più grande ghetto rom della Slovacchia. Una metastasi urbana nell’estremo Est dell’Europa, con case senz’acqua corrente né riscaldamento perché, ufficialmente, i rom distruggono le condutture e non pagano le bollette. In queste condizioni, appena fuori dalla città  di KoÅ¡ice che con Marsiglia sarà  capitale europea della cultura nel 2013, vivono circa 12 mila persone. Niente cifre esatte ma solo stime in questo territorio alla periferia del tempo che evoca la «psicosi del provvisorio» di Norman Manea, scrittore romeno dell’Olocausto e dell’esilio degli ebrei nei Paesi comunisti. Qui nulla è destinato a durare, eppure tutto appare immobile.
Uomini ai bordi della strada a guardare gli stranieri scortati dalla polizia, gioconde straccione avvolte in scialli e felpe di pile sui balconi. Bambini con giubbe troppo larghe che giocano tra petardi e bottiglie di plastica. La scuola materna Hrebendova ha posto solo per 123 alunni, quasi tutti tra i 5 e i 6 anni, favoriti rispetto ai più piccoli della comunità  perché ormai alla soglia delle elementari. La retta è di 15 euro, ogni mese le mamme si danno il cambio per svolgere piccoli lavori nell’istituto. Quasi tutti i padri non hanno un’occupazione. «Siamo già  alla seconda generazione di rom che non ha mai visto un familiare uscire di casa al mattino presto per andare al lavoro — dice Jarmila Vanova, giornalista e attivista rom — è innegabile che queste persone scontino un razzismo latente. Con il comunismo i rom avevano un posto forzato nella società , erano poco qualificati ma potevano svolgere attività , nell’industria e nell’agricoltura, che oggi non sono più richieste. Sempre ghettizzati, discriminati, dipendenti nel bene e nel male dallo Stato, non hanno mai imparato a governare il proprio destino. Erano i meno preparati alla transizione al libero mercato e non hanno capito le opportunità  della democrazia, nessuno li ha aiutati». Và¡clav Havel li definì «prova del nove per una società  civile». Negli anni Novanta si provò ad aprire i ghetti per accompagnarli con politiche urbanistiche mirate nella vita delle città . Non funzionò.
I rom sono la prima minoranza etnica d’Europa, dieci milioni in tutto, oltre sei milioni vivono nelle regioni centro-orientali dove sono sedentari da secoli. Le maggiori comunità , alloggiate in campi e quartieri-ghetto, sono in Slovacchia (10% su una popolazione di 5,5 milioni) e Romania. Restano facili bersagli della propaganda populista che monta nei periodi di crisi, evoca a fasi alterne vecchi metodi repressivi come le sterilizzazioni forzate e favorisce ondate di violenza: nell’ultimo anno attacchi in Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Bulgaria. Ai margini del presente e del passato. È relativamente recente il tentativo di ricostruzione storica dello sterminio di rom e sinti nei campi nazisti, il porraimos, divoramento.
«Oggi la questione rom si gioca tutta sul lavoro — dice al Corriere il ministro del Lavoro e degli Affari sociali Branislav Ondrus — in un quadro dove la disoccupazione nazionale è intorno al 13,5%, con il 34% dei disoccupati sotto i 25 anni: in questo contesto cittadini poco scolarizzati e senza qualifiche restano naturalmente fuori dal mercato. In tempi di tagli alla spesa sociale il nostro obiettivo è ottimizzare l’uso dei fondi europei per incentivare l’impiego e la formazione tecnica dei rom». In un clima di sospetto e timore reciproco, alimentato anche da rappresentazioni mediatiche stereotipate che non esitano a presentarli come comunità  problematica ed etnicamente connotata.
Parte dei programmi di KoÅ¡ice 2013, città  aperta e multiculturale, sarà  rivolta ai rom, con strutture pensate per decentralizzare la cultura e portarla nelle periferie «antisociali». «Nel ghetto esiste una piccola criminalità  per sbarcare il lunario accanto a reti organizzate che fanno affari con l’esterno — spiega la preside della scuola, Anna Klepacova —. Stimiamo che gli under 18 qui siano circa 2.500, bisogna trovare il modo di coinvolgerli in iniziative sociali e culturali. Tutte le nostre esperienze ci dicono che la risposta agli stimoli per uscire dalla routine è forte. Questi ragazzi non desiderano altro che un’occasione». Nicola, 19enne dai lunghi capelli corvini, porge un vassoio con i lavoretti dei bambini, mollette di legno dipinte di verde e fucsia con feltrini adesivi per tenere attaccati fiori di stoffa. Sopra ogni fiore, faticosamente in bilico, una coccinella.
Maria Serena Natale


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