Krugman e Rogoff, la disfida degli economisti arriva fino agli insulti

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Domenica, due altre stelle dell’economia americana, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff (R&R) — ambedue docenti all’università  di Harvard — hanno risposto al collega che li attacca da settimane: gli hanno scritto che lo stimano per il suo lavoro negli anni Ottanta, ma proprio per questo «è stato con disappunto profondo che abbiamo assistito al tuo comportamento spettacolarmente incivile delle scorse settimane».
«Spettacolarmente incivile»: tono duro, come duri sono stati gli assalti portati da PK a R&R attraverso la sua rubrica sul New York Times, attraverso il suo blog e ora attraverso un articolo sulla New York Review of Books. La virulenza insolita del confronto dipende dal fatto che al cuore non c’è solo l’aspetto accademico delle divergenze: c’è il modo stesso di affrontare il post-crisi, le strategie per rilanciare l’economia, gli effetti delle politiche di austerità  e le conseguenze di un alto debito pubblico. Negli Stati Uniti e forse soprattutto in Europa. Questioni pienamente politiche.
Krugman, un neo-keynesiano convinto, ha aperto le ostilità  da qualche mese ma ora la reazione di Reinhart e Rogoff rischia di farlo finire con un piede in fallo: l’accusa implicita è quella di essere diventato un militante della sinistra liberal americana. Il fatto è che PK sostiene — praticamente dallo scoppio della crisi finanziaria nel 2008 — la necessità  che i governi spendano, facciano deficit e non badino ora all’aumento del debito pubblico ma rinviino la sua riduzione a quando l’economia andrà  bene. Posizione controversa, contrastata in America dai conservatori e dal partito repubblicano e in Europa soprattutto dal governo tedesco di Angela Merkel. Nella sua polemica anti-austerità , quasi sempre in toni forti, Krugman ha criticato anche gli economisti italiani Alberto Alesina (docente a Harvard) e Silvia Ardagna (ex Harvard): li chiama Bocconi Boys e dice che i loro lavori, nei quali sostengono che tagli alla spesa possono avere effetti positivi sulla crescita, avrebbero erroneamente influenzato le scelte della Banca centrale europea quando questa era guidata da Jean-Claude Trichet. I suoi strali, però, sono andati via via crescendo soprattutto contro R&R.
Le elaborazioni di Reinhart e Rogoff sono diventate tra le più citate in campo politico da quando, nel 2009, la coppia ha scritto un libro sulle crisi finanziarie, «Questa volta è diverso», e poi da quando, nel 2010, hanno sostenuto che, oltre un certo limite, da loro individuato nel 90% del Prodotto interno lordo (Pil), il debito pubblico ha un effetto negativo sulla crescita. Qualche settimana fa, lo scoppio del grande scontro. Alcuni giovani economisti rifanno i calcoli dei lavori di R&R e scoprono che su un foglio Excel ci sono alcune cifre sbagliate che inficiano la famosa soglia del 90%. Reinhart e Rogoff ammettono l’errore ma sostengono che il risultato non cambia. Krugman, invece, coglie l’occasione e in una serie di commenti graffianti sul Times di New York e sul suo blog attacca i due. Tra l’altro, li accusa di avere nascosto i dati sui quali avevano costruito la loro teoria.
Domenica la reazione di R&R, una lunga spiegazione del loro lavoro e delle loro posizioni. Soprattutto per ribadire di non avere mai suggerito ai governi di tagliare di colpo il debito pubblico in una fase di recessione ma di avere sostenuto che nei Paesi della periferia dell’Europa una «larghezza di bilancio» non è sostenibile e in Germania, dove lo sarebbe, avrebbe un effetto pro-ciclico, surriscalderebbe cioè l’economia tedesca e metterebbe pressione sulla Bce e su Mario Draghi affinché stringessero la politica monetaria.
La controreplica di Krugman finora è stata moderata. Ha sottolineato che una cosa è dire che «Paesi con il debito sopra al 90% del Pil tendono ad avere una crescita più lenta», un’altra è sostenere che a quel livello «la crescita crolla bruscamente». Ma ha indicato che il duello si può forse chiudere: «Potrebbe andare avanti per sempre, e sia loro che io abbiamo altre cose da fare». In effetti, i toni guerreschi fanno male sia a R&R che a PK: i primi costretti a discutere di un errore non decisivo ma che li mette in imbarazzo; il secondo che rischia di passare più per un attivista che per un Nobel.


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