Le mani di Big Tobacco sul business miliardario delle sigarette elettroniche

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C’È UN sistema infallibile per accertare che la sigaretta elettronica non è una moda passeggera. Lasciate perdere che la fumano Uma Thurman e Leonardo Di Caprio. Il segnale è che, alle viste, c’è la Marlboro a pila. Kent, Camel, Lucky Strike e Gauloises – nella versione a vapore – arriveranno anche prima. Magari i marchi non saranno gli stessi. Ma Big Tobacco ha fiutato la pista.
ED È difficile che l’entrata in scena dei grandi predatori non modifichi radicalmente il panorama di un settore che, oggi, ha la vitalità  esplosiva e la varietà  di una primavera artica, con il proliferare quotidiano di nuove aziende e tassi di sviluppo del 100 per cento, senza, peraltro, avere ancora trovato la propria identità .
Incerta fra la vocazione alla farmacia («vi aiutiamo a smettere di fumare») e quella alla tabaccheria («un modo più sano di fumare »), la rivendita di sigarette elettroniche, oggi, non ha né il candore asettico della farmacia, né i colori caldi, a suggerire il legno e l’ottone, delle grandi tabaccherie sofisticate. Ricorda, piuttosto, una profumeria: teorie interminabili di boccette, piene dei liquidi che devono aromatizzare il vapore e piani interi di cassettini trasparenti, dove sono ordinatamente allineati i componenti di quella che, in fondo, è una macchina: una batteria che trasforma un liquido in vapore. Nel deserto in cui si stanno trasformando le vie commerciali delle città  italiane, le sigarette elettroniche sono (insieme ai locali per scommesse) l’unico elemento di vita nuova. Nell’ultimo anno sono sorte un po’ ovunque. Non sempre con i tempi giusti. A Roma, nel largo viale della parte bassa della Garbatella, la titolare scuote la testa: «Abbiamo aperto a febbraio. Ci siamo persi l’onda di Natale». Come tutte le rivendite del ramo, anche questa funziona in regime di franchising: in sostanza, al contrario di una tabaccheria, vende su licenza, il prodotto di una sola azienda. Qui, l’azienda è Iofumo, una ditta relativamente nuova, ma che, a Roma e cintura, ha già  sette negozi. Ovale, che è sulla breccia dal 2009, a Roma ne ha nove, ma, in Italia sono 400, un quarto di tutte le rivendite. Per il 2012, Ovale dichiara un fatturato di 20 milioni di euro, quasi quattro volte quello del 2011.
Anche se siamo nella fascia bassa dell’elettronica, quella tecnologicamente meno sofisticata, vale, insomma, la regola del settore: un formicolio instancabile di start up. Nel mondo, all’ultimo conto, risultano almeno 200 marchi diversi di sigarette elettroniche. Lo sappiano o no, sono destinati a fare la storia. Almeno, secondo una grande banca, Citigroup, che elenca la sigaretta a vapore fra le 10 tecnologie di rottura, destinate, come la stampa a 3D, a rivoluzioqualche nare l’immediato futuro. Già  da subito, tuttavia, le sigarette di Ovale o di Iofumo e delle altre cento start up una novità  storica l’hanno portata. E’ la prima significativa innovazione elettronica che nasce, si sviluppa, si radica in Cina. L’inventore è un farmacista, Hon Lik, angustiato, secondo la leggenda, dal vedere suo padre, incallito fumatore, morire di cancro al polmone e, probabilmente, anche più preoccupato dall’essere lui stesso uno da 60 sigarette al giorno. Commercializzata in Cina nel 2004, con il nome Ruyan (letteralmente “sembra fumo”) viene brevettata a livello internazionale nel 2007. La tecnologia ha subito modifica (originariamente, al posto della batteria al litio, per creare vapore c’erano gli ultrasuoni), ma il punto chiave è che i brevetti fondamentali sono cinesi. E in Cina, per lo più, viene prodotto, infatti, l’hardware della sigaretta, la macchina a vapore, quello che, nelle rivendite d’occidente, si chiama “il kit”.
Questo spiega la facilità  con cui nascono marchi e aziende, fondamentalmente dei rivenditori-distributori. Ma il moltiplicarsi di realtà  anche piccole ha consentito l’esplosione del fenomeno, che ha attecchito come un incendio d’estate nel bosco. Secondo Lorillard — uno dei giganti di Big Tofatto
bacco, quello delle Newport e delle Kent — la sigaretta elettronica ha già  occupato l’1 per cento del mercato Usa. Poiché il giro d’affari delle sigarette, in America, è di 100 miliardi di dollari, si tratta di un miliardo di dollari tondo, tondo, anche se le ditte più grosse, per ora, non arrivano ad un fatturato oltre i 30 milioni. A livello mondiale, secondo Economonitor, una società  specializzata in ricerche di mercato, la sigaretta elettronica vale 14 miliardi di dollari, su un giro d’affari globale di 664 miliardi di dollari. E questo comincia a porre un problema, per chi controlla il giro d’affari di 650 miliardi di dollari che restano. Il conto lo ha un’altra grande banca, Morgan Stanley: l’anno scorso, gli americani hanno rinunciato a comprare e fumare 600 milioni di sigarette, scegliendo, al loro posto, la sigaretta elettronica (che, finchè dura, paga anche meno tasse). Quest’anno, faranno sparire dal mercato americano 1,5 miliardi di sigarette tradizionali. E’ l’innesco di una affascinante saga di economia applicata.
Il settore è troppo frammentato. Gli analisti consigliano di aspettare che il settore si consolidi in aziende di medie dimensioni, in modo che con una-due acquisizioni si guadagni una testa di ponte vincente. Anche restare appesi ai brevetti cinesi piace poco. E poi c’è il dubbio più importante: la regolamentazione della sigaretta elettronica. Da vietare come le sigarette normali o da favorire come aiuto sanitario?
Per due-tre anni, questi dubbi e riserve hanno indotto alla prudenza i piloti di Big Tobacco, convincendoli a restare ai margini. Ma, alla fine, negli ultimi mesi, i dati e le proiezioni di mercato hanno travolto anche le perplessità  più ragionevoli. L’ennesima grande banca, Wells Fargo, valuta che, entro dieci anni, il consumo di sigarette elettroniche supererà  quello di sigarette tradizionali: significa proiettare un fatturato globale di 300 miliardi di dollari. «Siamo solo all’inizio» dicono a Wells Fargo: «E’ come con la Apple. Le e-cigs di oggi sono la versione 1 dell’iPhone». Con simili squilli di tromba, gli argini sono saltati. Lorillard ha messo per prima i piedi nel piatto comprando, per 135 milioni di dollari, Blu ecigs, una delle start up più grosse. British American Tobacco (Lucky Strike, ma anche i nostri toscani) ha acquisito un’azienda inglese CN Creative. Imperial Tobacco (Gauloises) ha preso una quota in un’altra azienda ancora, mentre Japan Tobacco ha stretto accordi commerciali. R. J. Reynolds (Camel e Winston) si prepara a lanciare in grande stile una sua e-sigaretta, Vuse, prodotta in Virginia (ma il brevetto resta cinese).
I dubbi si sono rovesciati in certezze. Il boss della British American Tobacco si è già  dichiarato convinto che, entro vent’anni, il 40 per cento del fatturato della Bat verrà  dalla sigaretta elettronica. Con un certo sussiego, il più grande di tutti, Altria (Philip Morris e Marlboro) aveva annunciato un vago progetto di sigaretta elettronica per il 2016. Contrordine: non si può restare indietro. l’erede del Marlboro Man spippetterà  nuvole di vapore nelle grandi pianure, già  nel 2013.


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