Il Tesoro alla svolta sui derivati “Nuove norme e più trasparenza”

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MILANO — Una crepa nella riservatezza da segreto di Stato sui derivati del Tesoro. Il ministro Fabrizio Saccomanni, in audizione alle Commissioni bilancio riunite, ha fatto un passo politico verso una maggiore trasparenza sui 160 miliardi di euro in contratti swap. Una fetta di questi — i contratti da 31 miliardi rinegoziati l’anno scorso — contiene perdite potenziali di 8,1 miliardi, come emerso da una relazione del Tesoro alla Corte dei conti.
«Non vorrei apparire elusivo ma sui derivati la stampa ha fatto una drammatizzazione eccessiva», ha detto Saccomanni, rispondendo ad alcune domande di parlamentari nel question time. «Abbiamo sempre dato piena informazione alla Corte dei conti, fornendo tutti i dati analitici per ricostruire le posizioni in derivati. Come altri paesi non pubblichiamo quei dati, perché di difficile interpretazione e perché non siano usati a fini speculativi da altre controparti. Ma se c’è l’orientamento della Corte a una maggiore trasparenza noi siamo assolutamente disponibili, come pure in caso di modifiche normative». In via XX Settembre non viene considerata un’affermazione di prammatica, ma un input politico che il nuovo inquilino vorrebbe imprimere alla materia, complessa e fumosa di suo e gelosamente custodita negli uffici dagli anni ‘90. Fonti della Corte dei conti valutano positivamente l’uscita del ministro ex Bankitalia. Il fatto poi che la nuova guida legale al Tesoro sia Luigi Caso, ex capo di gabinetto della magistratura contabile, aiuterà Saccomanni a districarsi tra l’auspicio di fornire ai cittadini più trasparenza e l’opportunità di non rivelare contratti che avvantaggino banche controparti.
Il ministro in audizione ha ribadito sull’uso dei derivati che «la preoccupazione prevalente era contenere il rischio di tassi, quindi sono state fatte operazioni di copertura di questi rischi. Come tutte le forme di assicurazione comportano un costo, ma hanno ottenuto le loro finalità, e ci hanno consentito di proseguire senza interruzione le emissioni». I contratti con cui il Tesoro ha scambiato con le banche specialiste tassi fissi (pagati) con variabili (incassati) si sono moltiplicati una decina d’anni fa, quando la curva dei tassi era piatta e si intendevano “fermare” nel tempo oneri sul debito ritenuti convenienti. Ma la crisi avviata nel 2008 con il crac di Lehman Brothers ha portato i tassi a zero, a tutto vantaggio delle banche e penalizzando il valore di mercato dei derivati pubblici. «Si ritiene il mark to market sinonimo di perdita o debito segreto nascosto — ha detto Saccomanni, senza entrare nelle stime — mentre ci sono sentenze che testimoniano come si tratti di proiezioni basate su un valore teorico in caso di risoluzione anticipata». Il riferimento, d’obbligo, è alla “risoluzione anticipata” chiesta da Morgan Stanley nel gennaio 2012, quando chiuse una serie di derivati incassando 3,1 miliardi dal Tesoro. «S’è trattato di intermediario che aveva particolari condizioni: questo tipo di condizioni oggi non è presente se non in misura minima nel portafoglio derivati ». Tale affermazione potrebbe stupire gli interlocutori, perché l’anno scorso — in una delle rare uscite pubbliche sui derivati, provocata da interrogazioni seguite al “caso Morgan Stanley”, un sottosegretario del governo Monti negò in Parlamento l’esistenza di simili clausole. A quanto risulta non ci sono clausole simili — e unilaterali — di risoluzione, ma poche altre clausole bilaterali su singole operazioni di importi ridotti, per poter sostituire le controparti. Anche su questo, come potrebbe attestare la relazione da poco inviata alla Corte dei conti sul debito di fine 2012 (e annessi derivati), il Tesoro opera per limitare i danni.


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