Il «Momento Katrina» di Obama. Come per Bush

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Il team di Obama rifiuta il confronto, da tempo proposto dai repubblicani, sottolineando le differenze tra una semplice, sia pur imponente, missione di soccorso e l’applicazione di una riforma di enorme complessità che mira a garantire le cure mediche a decine di milioni di americani oggi privi della benché minima copertura.
E tuttavia, giorno dopo giorno, il fantasma del fallimento di Bush comincia ad aggirarsi nella stanze della Casa Bianca: la crisi di «Obamacare», nonostante l’affannosa ricerca di correttivi, si sta rivelando priva di soluzioni efficaci mentre affluiscono nuovi sondaggi dai quali emerge non solo la conferma del calo verticale del numero di americani che approvano l’operato del presidente, ma anche — per la prima volta — un diffuso sentimento di sfiducia nella persona di Obama. Solo il 39 per cento dei cittadini giudica positivamente il suo operato. E’ un minimo assoluto, ma sono altri i numeri che preoccupano gli uomini della Casa Bianca: anche se criticato per le sue scelte di governo, il presidente ha sempre goduto della stima di una vasta maggioranza degli americani per la sua persona, la sua integrità non è mai stata messa davvero in discussione.
Per la prima volta, sull’onda del disastro della sanità e delle promesse fatte e non mantenute («chi vorrà potrà tenere la sua vecchia polizza sanitaria»), il presidente ora precipita anche nella stima dei cittadini: nel sondaggio della Quinnipac University una maggioranza di americani (il 52 per cento) lo giudica «disonesto o comunque non degno di fiducia», mentre nell’indagine Gallup il numero degli intervistati disposto a riconoscere Obama almeno l’onestà cala dal 60 al 50 per cento.
Recuperare per il leader democratico non sarà facile. E la toppa che ha provato a mettere giovedì sulla riforma, modificando con un atto amministrativo alcuni suoi meccanismi, anziché migliorare la situazione rischia di peggiorarla. La correzione non ha forza di legge, lascia molti assicurati nel limbo, fa infuriare le assicurazioni costrette a «fare gli straordinari» ed è criticata da tutti i commentatori di destra e di sinistra: per i primi è una misura inefficace e forse incostituzionale, mentre i secondi sospettano che Obama, chiedendo di lasciare a molti assicurati le vecchie coperture sanitarie ormai illegali, abbia messo in pericolo i principi-cardine della sua riforma solo per tentare di placare l’ira dei parlamentari del suo partito. E nemmeno questo gli è riuscito troppo bene, visto che ieri al Congresso la norma di modifica e ridimensionamento della riforma sanitaria obamiana approvata dalla maggioranza repubblicana della Camera è stata votata anche da 39 deputati democratici: una defezione di queste dimensioni, nel partito di Obama, non si vedeva da anni. Il provvedimento resterà lettera morta perché, dopo l’intervento della Casa Bianca, il capo della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, non lo metterà ai voti nell’altro lato del Parlamento. Ma il segnale d’allarme per Obama — alle prese con una doppia crisi di credibilità, nel Congresso e nel Paese — è difficile da sottovalutare.
Una crisi che, secondo molti, viene da lontano ed è stata alimentata da vari fattori. Certamente l’illusione di Obama di poter applicare agevolmente lo schema di una copertura sanitaria concepita come rete di assistenza pubblica tendenzialmente universale, almeno nei suoi requisiti minimi, a un sistema di mutue totalmente privato, frammentato e di enorme complessità. Ma sta pesando anche la debolezza della squadra di governo: è chiaro che il presidente paga anche colpe non sue, ma probabilmente in questi giorni si sta rendendo conto di essersi circondato di ministri e tecnici non brillantissimi. Una spiegazione (da prendere con le molle perché l’uomo ha qualche sassolino nella scarpa da togliersi avendo dovuto rinunciare alla guida della Fed) prova a darla Larry Summers: «I migliori si tirano indietro perché i repubblicani hanno reso il processo di conferma delle nomine pubbliche al Senato peggio di una colonscopia».


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