Mandela, il ritorno nella casa di Qunu una catena umana per l’ultimo viaggio

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MTHATHA — «È nostro, è a noi che appartiene!», proclama Precious mentre abbassa la saracinesca del suo piccolo spaccio di gioie e orecchini, «vogliamo rendergli omaggio, dobbiamo stare con lui». Qui, ancora più che a Johannesburg o a Soweto, il volto di Nelson Mandela è su tutti i muri, su ogni manifesto, nei nomi delle strade e nel cuore di ciascuno. L’aereo militare che trasporta il feretro è in volo da Pretoria, i negozi si chiudono uno a uno anche se è un sabato di mercato. Nelson Mandela sta tornando a casa, tra la sua gente, tra queste colline di un verde infinito che sembrano l’ultima terra prima di un cielo altrettanto infinito.
Qui vivono i Tembu, la tribù alla quale apparteneva Madiba, e i Pondo, due tra i grandi rami della nazione Xhosa, la più popolosa del Sudafrica e quella da cui proveniva la gran parte della generazione eroica dell’African National Congress, i giganti della
lotta contro l’Apartheid. È qui che Mandela ha sempre voluto essere sepolto, qui dove «nacque libero» e passò quelli che definì nell’autobiografia «gli anni più felici della mia vita», accudendo le bestie al pascolo in questo mondo d’erba. Qui giocò scalzo con gli altri bambini pastori e poi diventò uomo secondo i riti della tribù, e poi capo. Di qui infine dovette partire, quando scoprì che quella libertà era un’illusione, che gliela avevano rubata e per riaverla il cammino sarebbe stato molto lungo.
Oggi è la gente di Mthatha a mettersi in cammino, Precious che vuole vedere passare il «suo» Madiba e con lei migliaia d’altri, madri con i bambini, agricoltori bianchi dalle facce cotte dal sole, gli studenti dell’università, gruppi di giovani che invadono la carreggiata brandendo cartelli e bandiere. Sono giorni che seguono le celebrazioni funebri in tv, hanno visto le lunghissime file sgranarsi davanti al feretro esposto a Pretoria per tre giorni, adesso tocca a loro. Accade che si fermi una macchina, ne scendano attivisti dell’African National Congress e si mettano a distribuire magliette con la faccia di Mandela e le date della sua lunghissima militanza di partito: 1942-2013. Il vecchio leader che se ne è andato appartiene anche a loro e non perdono occasione di ricordarlo a tutti: alle elezioni mancano pochi mesi.
Da Mthatha a Qunu, dal capoluogo dove atterra l’aereo al villaggio dell’infanzia dove questa mattina per tempo avverrà la sepoltura, sono una ventina di chilometri. Non c’è casupola, non c’è borgata che non abbia i suoi abitanti schierati lungo il nastro d’asfalto, in attesa. Ma il punto più affollato è qui, fuori città, dove gli organizzatori hanno promesso che il corteo funebre farà una breve sosta. Uno slargo sulla nazionale, una grande stazione di servizio, un supermercato.
Ore di attesa sotto il sole, tra canti e balli incessanti. Ognuno ha Madiba con sé, sulla maglietta, o sul poster che brandisce tra le mani, o una bandierina sudafricana in pugno oppure, come fanno molte donne, infilata tra i capelli ricci.
Infine, con buon ritardo, ecco un rombo di motori, una fila serrata di moto della polizia venire avanti. L’emozione raggiunge il
parossismo, i cordoni vengono facilmente rotti e la carreggiata libera si riduce a un esile passaggio. Il corteo non finisce mai e neppure rallenta, passano famigliari, dignitari, il chiacchierato re dei Tembu con la corona in testa al volante della sua auto personale, ambulanze, autoblindo, pullman con i suonatori della fanfara militare, e poi leggermente diverso da tutti gli altri veicoli un furgone nero dalle ampie vetrate, un flash, elicotteri che volteggiano nell’aria, il lampo di una bandiera avvolta intorno alla bara ed è finita.
Cala come un silenzio interdetto e poi la gente sbandata, confusa, appena vede che hai al collo il badge dell’accredito giornalistico ufficiale ti viene a apostrofare: «Siamo delusi, siamo costernati, ci avevano detto che si sarebbe fermato, che lo avrebbero lasciato un po’ con noi, non abbiamo visto niente, sono arrivati all’improvviso e neanche ci avevano avvisato che era lui, a Pretoria lo hanno tenuto tre giorni e qui soltanto un attimo. E domani per i funerali non ci lasceranno avvicinare, non ci è permesso nemmeno andare a Qunu. Perché ci fanno questo?».
Adesso la bara con le spoglie mortali di Nelson Mandela è a Qunu, nella casa di campagna dove negli ultimi anni il vecchio veniva a passare i suoi giorni non appena poteva: laggiù, quel tetto rosso in quella macchia di alberi. Le Forze armate, responsabili del trasporto fino a qui, la hanno consegnata al partito, e il partito alla famiglia. Sono loro, il clan, i titolari e gli organizzatori dell’ultimo rito. Sono i Mandela: come la gente, come l’African National Congress, hanno titolo a rivendicare Madiba come «loro». In queste ore finali della lunga settimana di lutto nazionale, è come se tutti costoro che il grande liberatore aveva unito già prendano a tirare ciascuno la sua memoria dalla propria parte, il partito per trarne potere, la famiglia per trarne lucro, il popolo per trarne speranza. Il dolore non è ancora finito eppure ogni giorno porta con sé qualcosa che non va.


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