Le regole europee sulle banche e i conti pubblici, a pagare sono i cittadini

Le regole europee sulle banche e i conti pubblici, a pagare sono i cittadini

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Resa dei conti. Una doccia fredda, anche perché il governo faceva affidamento sulla precedente stima di marzo dell’Istat, che dava il deficit sul Pil, nell’anno appena trascorso, all’1,9%

C’è poco da stare allegri, leggendo i numeri dell’Istat sull’andamento dei conti pubblici. Se fino a ieri l’incombenza per qualsiasi governo era solo – si fa per dire – quella di disinnescare la mina delle clausole di salvaguardia (12,4 miliardi di euro) e correggere il bilancio statale nella misura richiesta per stare negli obiettivi del Fiscal compact (3-5 miliardi di euro), oggi se ne aggiunge un’altra, che fa saltare in aria ogni velleità a proposito di riduzione delle tasse e aumento della spesa sociale: recuperare altri 4,7 miliardi di euro di disavanzo (la stima è di Eurostat), prodotto dalle manovre di salvataggio delle banche venete, dalla ricapitalizzazione di Intesa San Paolo e dal ristoro degli obbligazionisti del Monte dei Paschi.

La cifra è data dal saldo tra deflussi di capitale (14,7 miliardi) e recuperi a titolo di rimborso (10 miliardi).

Per intenderci: a fronte di una crescita che nel 2017 si è attestata esattamente sulle previsioni del governo (+1,5%), l’ultima stima dell’Istat sul rapporto deficit/Pil (2,3%) comporta uno sforamento dello 0,2% rispetto a quanto programmato nell’ultima Nota di aggiornamento al Def (2,1%).

In questo modo, salta tutta la tabella di marcia approntata per il triennio, che prevedeva, in ossequio alle regole europee, il conseguimento, a tappe forzate, del pareggio di bilancio nel 2020. Una doccia fredda, anche perché il governo faceva affidamento sulla precedente stima di marzo dell’Istituto di statistica, che dava il deficit sul Pil, nell’anno appena trascorso, all’1,9%.

Sale anche la percentuale del debito sul prodotto lordo, che si porta a 131,8, due decimali in più rispetto all’obiettivo contenuto nella Nota di settembre. In termini assoluti, parliamo di una montagna di 2.263 miliardi di euro. Anche qui c’è un gap tra stime e realtà, stanti gli impegni con Bruxelles per una riduzione, addirittura, di otto punti in tre anni (120 miliardi di euro circa) della percentuale del debito sulla ricchezza nazionale.

Interessante, in questo quadro, il dato sul saldo primario (il saldo di bilancio prima di pagare gli interessi sul debito), che, invece, risulta più confortante delle stesse previsioni del governo. Nel quadro programmatico dell’ultima Nota di aggiornamento al Def l’asticella per il 2017 era fissata all’1,7%, ora l’Istat, nel conto trimestrale, rileva che la sua «incidenza» sul Pil sarebbe stata del 2,2% (tendenzialmente migliorativa).

Insomma, l’Italia continua a tassare i cittadini più di quanto spende per loro (ininterrottamente dal 1992, con la sola eccezione del 2009), ma presenta un disavanzo di bilancio perché questo surplus non è sufficiente per pagare gli interessi sul debito. Una cambiale di circa 70 miliardi all’anno (20 miliardi in più di quanto si spende per la scuola, per capirci), che, con la fine del Quantitative easing, potrebbe diventare ancora più onerosa nei prossimi anni (fino a 40 miliardi in più).

Intanto, su di essa va a gravare anche il costo dei recenti salvataggi bancari. L’impatto di quest’ultimi sul debito, sia in termini diretti che indiretti, è stato stimato da Eurostat nell’ordine di 11,2 miliardi di euro.

Cosa significa questo per i cittadini?

Semplificando, potremmo dirla così: il governo, per mettere una toppa ad alcune falle del settore bancario, si indebita con le banche stesse. In questo modo, crescono gli oneri per il servizio del debito (paghiamo più interessi), che a loro volta fanno saltare i conti pubblici (vincoli europei). Bruxelles chiede una correzione di quest’ultimi (pena l’apertura di una procedura di infrazione), che, alla fine della giostra, sarà pagata dai cittadini (meno istruzione, meno sanità, meno assistenza, oppure più tasse).

Una partita disonesta, giocata nella cornice di regole europee ormai insostenibili, figlie della cieca ideologia monetarista che ha sequestrato il processo di integrazione.

Questo, mentre il Paese continua a mostrare segni di profonda sofferenza. Lo dimostra, paradossalmente, perfino l’ultima rilevazione dell’Istat sulla disoccupazione, che cala, certo, ma solo perché sono aumentati quelli che un lavoro non lo cercano più, i cosiddetti inattivi, chi ha perso la fiducia nel futuro.

FONTE: Luigi Pandolfi, IL MANIFESTO



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