Chicago sotto la pioggia senza punti esclamativi

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CHICAGO — Mentre l’avversario svolazzava per l’America, ieri Barack Obama giocava a basketball nella sua città , che lo stima e lo ama molto. Tra i due sentimenti c’è una differenza: e nessuno sa quanti voti valga, nel Paese. Qui a Chicago, cinque gradi e una pioggerella fastidiosa, non è più il 2008. Quattro anni sono un’epoca, e una nuova epoca impone una nuova parola d’ordine. «Change» non si può più usare. Cambiamento vorrebbe dire affidarsi a Mitt Romney, pettinato mistero repubblicano.

Il 2012 non è il 2008. Chicago lo sa. Dopo diciassette mesi di campagna elettorale, due miliardi di dollari di spese e un milione di spot televisivi, il traguardo è in vista. La risposta arriva da vicino: dall’Ohio, dal Wisconsin, dal Michigan. Il presidente ha costruito nel Mid-West il suo «firewall elettorale»: se tiene, vince; se cede, perde. Chicago ha aspettato, sospesa, di sapere cosa sarebbe accaduto al suo campione. Come una città  la cui squadra è altrove, in trasferta, a giocarsi una finale decisiva.
Cinque gradi e una pioggia fastidiosa, che tradizionalmente non aiuta i democratici. Nell’incertezza si rincorrono previsioni strambe, informazioni spacciate come presagi: dei dieci Stati dove, nell’ultimo anno, sono state immatricolate più automobili americane (GM, Ford, Chrysler), otto sono repubblicani, due sono in bilico (Michigan e Iowa). Ma il sindaco di Chicago Rahm Emanuel, amico del presidente, si precipita su CNN e corregge il tiro: il presidente ha salvato l’industria americana, 150 mila posti di lavoro solo in Ohio!
L’ipocrisia europea della pausa pre elettorale, negli USA, non esiste: la nazione non ama le tregue nel pieno della battaglia. La scelta di Obama di rinunciare ai comizi dell’ultimo giorno appare tattica. Di lui si parla comunque, anche se si limita a una visita in un comitato elettorale, qualche telefonata, un commento cavalleresco sull’avversario, strette di mano, sorrisi automatici, pacche sulle spalle. Anche il presidente ha aspettato, come tutti, dopo aver votato in anticipo, il mese scorso. Ma negli occhi scintillanti del 2008 è apparsa una lacrima: stanchezza e commozione, buona comunque per la televisione.
Raccontano che il presidente continua a ripetere «Questo è il mio ultimo comizio…», «Questa è la mia ultima tappa…». Perché comunque vada, per lui, è l’ultima elezione; nel 2016 toccherà  ad altri. Per ogni presidente in carica, la riconferma porta una combinazione di ansia e malinconia. Correre in testa, stanca. Rincorrere, invece, eccita. Perfino nel perimetro di Obamaland — Hyde Park, sud della città  â€” i luoghi del presidente non sono più meta di pellegrinaggi. Quattro anni fa il suo nome era ubiquo: un mantra di tre sillabe, un esorcismo dopo anni diabolicamente difficili, una memorabile festa in Grant Park. Quella vittoria era stata un tripudio. Questa sarebbe un sollievo.
Nel 2008 Obama restava in maniche di camicia perché così fa un giovane politico, nuovo e un po’ incosciente. Nel 2012 resta in maniche di camicia come Mitt Romney e Paul Ryan: perché lo prevede la coreografia elettorale, un politico deve sembrare un uomo normale al lavoro.
Chicago se ne rende conto, e aspetta. È la città  dell’eroe che torna: ma l’odissea non si replica, lo sanno tutti. Discorsi e considerazioni si ripetono in modo circolare: il ruolo di alcuni Stati, il voto degli indecisi, l’importanza di spingere i propri sostenitori alle urne. «The loop» — la sferragliante ferrovia sopraelevata, due miglia, nove stazioni, venti milioni di passeggeri l’anno — è la metafora del momento. Lunghe file, come dovunque; fogli su fogli da scorrere, nomi su nomi da studiare per altre elezioni; tracce di quella disorganizzazione che gli stranieri non s’aspettano dall’America.
Gli addobbi blu salgono nel McCormick Place’s, mastodontico centro congressi sul lago. Volontari, attivisti e giornalisti si avviano, lasciapassare al collo, verso i saloni dove Barack Obama apparirà , comunque vada, passando sotto gli striscioni con la scritta FORWARD (avanti). Gli organizzatori si sono dimenticati il punto esclamativo, che invece risaltava in qualsiasi apparizione elettorale del presidente. In quell’omissione c’è la differenza tra 2008 e 2012, comunque vada a finire. Perché finisce. Chicago deve rimettersi a lavorare. Fa troppo freddo, da queste parti, per restar fermi a guardare da che parte gira il destino.


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