Centenario della Cgil: l’intervento di Guglielmo Epifani

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Al teatro degli Arcimboldi e alla Scala le celebrazioni del Centenario

Milano 1 ottobre 2006
L`intervento di Guglielmo Epifani

Care compagne, cari compagni, a nome di tutta la Cgil ringrazio i nostri ospiti e tutti coloro che con la loro presenza qui oggi dimostrano attenzione e rispetto all’ evento che celebriamo.
Per molti di loro – segretari di partito, come Piero Fassino e Franco Giordano, uomini politici, amministratori – la Cgil, il sindacato, il mondo del lavoro hanno costituito un punto di riferimento ideale, politico, morale. Ne sono stati compagni di viaggio, ne hanno sostenuto le lotte, i successi ed anche le sconfitte. Altri ne sono stati militanti, dirigenti per una parte importante della loro vita. Hanno contribuito a fare la Cgil così come essa è oggi, e come è stata in passato.
Saluto in modo particolare due compagni che sono stati importanti per me e per la Cgil, Antonio Pizzinato e Sergio Cofferati, uomini che partendo proprio qui, da Milano, hanno avuto la responsabilità di guidare la Cgil in anni difficili ed ai quali rinnovo l’affetto e il ringraziamento di tutti. A Bruno Trentin, vorrei dire che la forza e l’affetto che questa sala oggi ha dentro di sé possa aiutarlo ad uscire dalla sua situazione e a farlo tornare presto fra di noi.
Ringrazio tutti coloro che in ogni parte del nostro paese, e anche all’estero, i lavoratori emigrati ed i figli, hanno fatto vivere il centenario della Cgil; ai tanti uomini e donne di cultura, teatro, cinema, letteratura, arti figurative e musica che hanno prestato la loro opera e la loro passione civile per far tornare il lavoro al centro della ricerca e della produzione culturale. Penso alle belle musiche del maestro Piovani e al bel manifesto di Ennio Calabria che celebra i nostri cento anni.
Al Presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro rinnovo e confermo la nostra stima e amicizia, anche nel nome della vittoriosa battaglia condotta insieme in difesa della Costituzione.
Ringrazio Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente che ha seguito ed incoraggiato il nostro lavoro di memoria, dando l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica alle nostre iniziative.
A Giorgio Napolitano – che aprì, con la tavola rotonda sui diritti del lavoro e la Costituzione, le celebrazioni del centenario – la stima e l’affetto per quello che ha fatto e fa per i lavoratori e per il riscatto del suo Mezzogiorno.
E’ stato per tutti un grande onore essere ricevuti al Quirinale, la casa degli italiani: lo abbiamo vissuto come il riconoscimento più alto che le istituzioni della Repubblica potevano conferire alle lotte del lavoro ed al contributo dato alla libertà e alla democrazia di tutti. Ed è stata una delle esperienze più importanti anche per molti di noi.
Saluto il Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, con il quale abbiamo vissuto anni e anni di lavoro comune, e con il quale abbiamo per onestà talvolta anche litigato, e sul quale sappiamo di poter contare anche dall’alto seggio che oggi ricopre; saluto il vicepresidente del Senato, Milziade Caprili per l’onore che ci fa, anche a nome di Franco Marini, e il presidente del Cnel. E tutti gli esponenti del governo presenti, i ministri, i sottosegretari – con un affetto particolare per quelli che vengono dalla nostra storia e dalla nostra esperienza – ed in particolare il Presidente del Consiglio Romano Prodi, che ci ha onorato della sua presenza in giorni di evidente impegno e responsabilità.
Un ringraziamento sincero lo rivolgo a Raffaele Bonanni ed ai segretari degli altri sindacati presenti, a Renata Polverini; voglio ribadire a Raffaele che la forza del sindacalismo confederale sta oggi più che mai nella ricchezza dei suoi pluralismi, e nella sua unità. Unità che resiste anche di fronte alle divisioni più profonde, perché è proprio il valore comune della confederalità, dello stare assieme, della solidarietà, che consente sempre di ritrovarsi e sempre di ripartire insieme.
Saluto e ringrazio le associazioni imprenditoriali tutte, quelle presenti e quelle che ci hanno inviato un messaggio di augurio.
E infine un grazie ai nostri graditissimi ospiti internazionali. Grazie a John Monks e a Guy Ryder, per il lavoro che svolgono e per compiti che ci aspettano al Congresso di Vienna di fine mese dove nascerà un nuovo sindacato mondiale, ed al congresso di Siviglia della Ces della primavera prossima. E a tutti i nostri ospiti e compagni dei sindacati stranieri presenti, con i quali condividiamo problemi, domande e risposte, e un impegno comune e solidale. Ed ai quali dico: non solo incontriamoci, ma diamo vita ad un vero sindacato europeo, perché di questo c’è bisogno.
Care compagne e cari compagni, il 1 ottobre del 1906 nei locali della Camera del Lavoro, al termine del Congresso delle organizzazioni di Resistenza, i cinquecento delegati presenti in rappresentanza di oltre duecentomila iscritti decidevano a maggioranza, con il voto contrario dei delegati rivoluzionari – che avrebbero poi abbandonato il congresso – di “costituire in Italia la Confederazione Generale del Lavoro”, affidandole la “direzione generale assoluta del movimento proletario, industriale e contadino al di sopra di qualsiasi distinzione politica”.
Certo oggi, rileggendo lo statuto del 1906 appare chiaro come molte cose appartengano al linguaggio sindacale di quel tempo e quella direzione “assoluta” del movimento suscita qualche dubbio, solo che si pensi al vario, spesso caotico stato delle vertenze, lotte di resistenza e di conquista che accompagnarono il lungo e spesso difficile processo di coscienza di sé e di emancipazione del lavoro, nelle forme delle trasformazioni produttive tra l’800 ed il ’900. Nondimeno quel termine esprimeva un bisogno di coordinamento, di direzione, di unità, capace di tenere assieme i mille rivoli nei quali il nascente movimento operaio e la condizione bracciantile nelle campagne si andava configurando. Quella direzione che in fondo si era espressa nello sciopero generale di Genova del 1900 e nello sciopero generale del 1904, il primo nella storia d’Italia.
Qui sta la forza e la fragilità della Cgdl delle origini; stretta tra le federazioni di categoria già organizzate e le Camere del Lavoro di diverso orientamento politico e sindacale. Un connotato che ne segnerà la storia fino alla prima guerra mondiale, con un dibattito permanente proprio di tutta l’esperienza europea dei primi del 900 attorno al rapporto fra azione sindacale e azione politica, fra sindacati e partiti.
Il 1906 non è solo la data in cui nasce la Cgdl. In Inghilterra è l’anno in cui il partito laburista, fondato dalle Trade Unions, partecipa alle sue prime elezioni; in Germania è l’anno in cui si raggiunge l’accordo fra il partito socialdemocratico ed i sindacati tedeschi.
Da noi, la scelta di quel giorno costituisce il punto di avvio di una storia nuova, quella che attraverserà tutto il novecento italiano ed europeo fra due conflitti mondiali, le guerre coloniali, la dittatura fascista, la lotta di liberazione, la rinascita con il patto di Roma del sindacato, la divisione del 1948, la configurazione definitiva che ci porta fino ai giorni nostri.
Quel soggetto confederale, che nasce quel giorno, è altro e più delle rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo delle origini. Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato. Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati.
Solo un sindacato confederale – quello di ieri e quello di oggi – può tenere unite, dentro di sé, le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del sud e quelli del nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani ed i pensionati.
Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea – come ci ricorda Vittorio Foa – per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri.
Nel corso delle manifestazioni del centenario abbiamo ritrovato nomi e volti in parte dimenticati: uomini e donne che sono stati i veri protagonisti di questa storia, e organizzatori sindacali di grande valore. Argentina Altobelli, la donna che guidò prima del fascismo quella che era la categoria più grande, quella dei lavoratori della terra. Rinaldo Rigola, l’uomo cresciuto a Biella dalla grande barba e dagli occhiali scuri a proteggere una cecità che lo accompagnò per quasi tutta la vita. E che fu di quella Cgdl il primo segretario generale. Ernesto Verzi, il capo della Fiom, Angiolo Cabrini, Felice Quaglino, Ettore Reina. Poi la figura forte e popolare del capo dei sindacalisti rivoluzionari, Alceste De Ambris. Poi ancora Bruno Buozzi, a cui toccò il compito di guidare la Fiom fra il 1910 e il biennio rosso, e che con il giovane Giuseppe Di Vittorio avrebbe rappresentato l’anello fra il prima ed il dopo della notte democratica, quella che calò sull’Italia e colpì in modo drammatico gli uomini, le sedi, i quadri della Cgdl e i diritti dei lavoratori.
Il 1 maggio del 1921 fu anche l’ultimo prima di quello del 1945, quando a Roma parlarono Giulio Pastore e Giuseppe Di Vittorio, e qui, a Milano, Sandro Pertini, Leo Valiani, Luigi Longo. “Basterà un attimo di libertà – aveva scritto Bruno Buozzi nel 1924 dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti – e le nostre istituzioni fioriranno meglio di una volta”. E così fu.
Siamo andati alla ricerca di luoghi e condizioni di lavoro che dettero un’impronta decisiva al senso di solidarietà, di uguaglianza, di fraternità. Il lavoro nelle miniere, ad esempio, la condizione dei minatori: a Buggerru dove l’esercito sparò su persone che chiedevano un’ora di risposo in piena estate per continuare a sopportare fatica e assenza di libertà. A Marcinelle dove si consumò la più grande tragedia mineraria europea giusto cinquanta anni fa e dove abbiamo trovato con i luoghi di una memoria per noi sacra, le bandiere dei tanti figli di italiani in festa per la vittoria dei campionati mondiali di calcio. A Cabernardi, nelle Marche, dove i minatori per salvare il lavoro si calarono nella miniera, uscendo stremati, due mesi dopo. Quello che colpisce in questi luoghi è che chiuse le miniere, quel senso della fatica che ti rende uguale e fratello all’altro continua a vivere, permea di sé anche i segni della modernità, vivendo tra le generazioni che si rinnovano.
Ci siamo insieme interrogati su quanto lega la storia del sindacato del prefascismo al sindacalismo moderno, quello che nasce con la libertà riconquistata e la liberazione del paese. I nomi delle organizzazioni – basta pensare alla Fiom che conta i suoi congressi a partire dal primo, quello del 1901 – gli stessi, i problemi simili e uguali, i valori uguali.
Ma anche le differenze nel dopoguerra hanno il loro peso. Il mondo del lavoro si fa insieme più organizzato, soprattutto nelle grandi fabbriche, e attraversato dalle appartenenze politiche e ideologiche del dopoguerra. Il sindacalismo di ispirazione cristiana, che ha radici antiche – nel 1918 nasce la Cil – nell’Italia repubblicana esprime una compiuta, autonoma e forte presenza organizzata.
Ma è soprattutto l’Italia ad essere diversa.
Nel 1906 quando nasce la Cgdl avevano diritto al voto meno di tre milioni di cittadini; non esisteva legislazione sul lavoro, tutele per il i bambini, per la maternità, per le donne, si potevano chiudere d’autorità le leghe sindacali e le Camere del Lavoro, proibire gli scioperi. La Costituzione, quella nata dalla Resistenza e dalla vittoria del referendum del 1946, fa del lavoro il fondamento costitutivo della Repubblica.
Abbiamo giustamente collegato i contenuti della Carta del 1948 al movimento di lotta, agli scioperi – gli unici in Europa – che accompagnarono la Resistenza e la liberazione dell’Italia fra il 1943 ed il 1945. Ai tanti che per questo furono deportati e non tornarono, a quelli che nelle grandi fabbriche ancora rimaste oggi e nelle tante città del paese ogni anno vengono ricordati, abbiamo portato tutta la riconoscenza che si deve a chi si è sacrificato per la libertà di tutti e ha dato una impronta morale indelebile ai valori del nostro paese.
Una parte delle conquiste sociali e del lavoro erano state raggiunte, anche prima, nei primi due decenni del secolo: la conquista delle otto ore, grazie alla lotta delle mondine, delle lavoratrici tessili e dei lavoratori meccanici. La stipula dei primi accordi collettivi; le leggi in materia di infortuni e rischi sul lavoro; la spinta data all’emancipazione delle donne, che conteneva in sé una esplicita domanda di libertà, fino alla mobilitazione per la richiesta del suffragio universale, quello che le donne ebbero il diritto di esercitare, per la prima volta, solo nel 1946.
Il Patto di Roma – firmato fra il 3 ed il 4 giugno del 1944 – sanciva la rinascita della Cgil unitaria. Il nuovo inizio di un sindacato confederale più rappresentativo, più grande e unito in un’Italia restituita alla democrazia ed alla libertà. A differenza del 1906, c’è tutto da ricostruire. Le forze politiche e le diverse anime sindacali raggiungono una unità che sarà preziosa nel definire identità, compiti, regole del sindacato italiano. Normalmente si coglie in questo un limite. Un peccato di origine, a cui si contrappone il sindacato che rinasce dal basso nelle fabbriche del nord. E questo in parte è storicamente vero. Ma è altrettanto vero che non c’erano alternative, e che in questo modo le stesse grandi forze politiche del tempo finivano per alimentarsi e contaminarsi con i temi del lavoro e della rappresentanza sindacale, mai in chiave tattica ma sempre con una ricerca rivolta ai profili del rapporto tra ruolo delle istituzioni, responsabilità di carattere pubblico, e funzione autonoma delle rappresentanze sociali.
La forza di questo dibattito sopravvive alla fine della Cgil unitaria, alla divisione del 1948, e pone ad ogni organizzazione il dovere di ripensarsi e ricostruirsi a partire dai contenuti di quel patto.
Bruno Buozzi muore fucilato dai tedeschi all’alba della Liberazione di Roma. Aveva portato le ragioni del riformismo sindacale del periodo prefascista nella fase di costruzione del Patto di Roma. Una coerenza che lo portò a combattere la dittatura, il fascismo, ad andare in esilio, a non piegare la testa, a polemizzare con quanti – per quieto vivere – dei vecchi organizzatori sindacali mostrarono meno intransigenza e meno coraggio.
Di lì a poco, due anni dopo, muore anche Achille Grandi – lo abbiamo ricordato ieri insieme con Raffaele a Como – una grande figura di sindacalista, che aveva firmato il Patto di Roma per la corrente dei lavoratori cristiani, lasciando a Giulio Pastore il compito e la guida di quella che sarebbe diventata la Cisl.
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Giuseppe Di Vittorio – il sindacalista di Cerignola che aveva lottato e vissuto con i suoi braccianti ed era stato a lungo in esilio – il dirigente a cui spettò, finita l’esperienza della Cgil unitaria, il compito e la responsabilità di ricostruire la Cgil.
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e la Cgil di oggi è la forza sindacale che conosciamo, seria, autorevole, popolare, radicata nel mondo del lavoro e fra gli anziani, lo si deve in grande misura alla sua capacità, al suo lavoro, e a quello dei dirigenti di allora: fra tutti Fernando Santi, Vittorio Foa, i giovani Lama, Trentin, Romagnoli.
Nel 1949, al Congresso di Genova, Di Vittorio formulò la proposta del Piano del lavoro, un quadro organico di interventi tesi a ricostruire il paese, partendo proprio dalle esigenze del lavoro. Una proposta autonoma di cambiamento della politica economica e sociale, e insieme un atto di responsabilità nazionale.
Dopo la sconfitta del 1955 alla Fiat toccò a Di Vittorio segnare la svolta, fare i conti con i cambiamenti che avanzavano, non chiudere gli occhi. E fu sempre lui, che aveva detto dopo la scissione “da domani cominciamo a lavorare per l’unità”, ad assumere, di fronte alla tragedia di Ungheria, dell’ottobre di cinquanta anni fa, una posizione forte e coraggiosa. Quella che sceglieva la democrazia contro la forza. Gli operai ungheresi contro l’esercito sovietico. “La segreteria della Cgil – diceva il comunicato del 29 ottobre – di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria, ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco tra dirigenti e masse popolari”.
Dedicheremo ai fatti di Ungheria ed alla posizione della Cgil un convegno di ricostruzione storica. Bruno Trentin, prima dell’incidente di questa estate, testimone di quelle giornate, aveva preparato un intervento scritto che leggeremo e sarà anche questo un modo di averlo presto fra di noi.
In tutti questi quattro passaggi storici, si può riassumere il profilo costituente della identità e dei valori della Cgil del dopoguerra: il valore dell’autonomia, la difesa del proprio punto di vista, anche quando non è facile farlo e si sceglie comunque da che parte stare; la ricerca costante dell’unità del mondo del lavoro, come attitudine a trovare quello che unisce, senza mai smarrire la propria coerenza; la capacità ed il coraggio di proporre, il lavorare per disegni alti di cambiamento e di riforma; il vivere sempre in mezzo ai lavoratori, rappresentandone i bisogni ed i sentimenti, contrattando processi di unificazione normativa e intervenendo nelle condizioni concrete del lavoro.
E’ una Cgil – quella di Giuseppe Di Vittorio – che nasce dall’incontro dell’antica cultura dei lavoratori delle campagne e dell’edilizia con quella delle fabbriche industriali e della classe operaia. Una Cgil che rappresenta sempre più i lavoratori dei settori pubblici, della scuola, dei trasporti, dei servizi; ed i tanti anziani e pensionati raccolti in una delle più originali forme organizzative del sindacalismo moderno.
La lotta per lo sviluppo del Mezzogiorno, per la trasformazione dei rapporti di lavoro in agricoltura e la lotta per la legalità, attraversa tutta la storia della Cgil.
Non siamo più al 1906 quando al Congresso partecipano poche e sparse realtà sindacali del Mezzogiorno. Dalle lotte bracciantili, dagli edili, dai minatori si forma una coscienza sociale e civile che spesso è l’unica risorsa in spazi e luoghi dominati dal latifondo e dalla mafia. Portella della Ginestra è l’episodio più noto, più drammatico di una scia continua di lutti e di delitti con i quali si vollero colpire le lotte dei braccianti, la loro ansia di riscatto e la Cgil. Salvatore Carnevale, Placido Rizzotto, Epifanio Li Puma sono i nomi più noti tra i tanti che caddero in quella stagione e che nel tempo sono diventati il riferimento morale della grande determinazione con cui la Cgil di ieri e di oggi è impegnata in prima linea a combattere la mafia ed a battersi per la legalità.
La storia del lavoro in questi cento anni non è stata una storia lineare, semplice, retta. Ogni conquista è costata, ogni diritto pagato a caro prezzo. E spesso siamo stretti a riconquistare quello che era stato poi perso.
Anche le grandi trasformazioni degli anni cinquanta e sessanta, quelle che cambiarono il volto del paese, hanno significato per milioni di persone un distacco, un viaggio, una rottura. Quella che ha accompagnato milioni di immigrati attraverso il porto di Genova prima, poi attraverso quello di Napoli in tutto il mondo a cercare lavoro e dignità.
Con la grande fabbrica fordista, a partire dagli anni sessanta, la condizione operaia assume coscienza, forza. E diventa il motore di una trasformazione che cambia in profondità il paese, i suoi riferimenti sociali e culturali, e anche il sindacato.
I delegati, la contrattazione ne rafforzano la democrazia e le forme rivendicative. Il valore dell’uguaglianza esce dalle fabbriche, vive nella cultura, nei modelli sociali presi a riferimento, segna tutta una nuova generazione di operai e di studenti. Milano, quella Milano, diventa l’epicentro di una grande rivoluzione sociale, economica, civile, culturale.
Si apre quella stagione riformatrice che farà delle pensioni, della casa, della salute, della sicurezza e dei diritti del lavoro i suoi temi di impegno e di cambiamento. Quelli che portarono alla conquista dello Statuto dei Lavoratori. Rinasce dal basso quella spinta unitaria che soprattutto nei metalmeccanici segnerà l’autunno caldo e gli anni settanta.
Non possiamo, qui, oggi, ripercorrere il quarto di secolo che abbiamo alle spalle: le ulteriori trasformazioni produttive e lo sviluppo dei servizi, sempre più immateriali, le rigidità di un sistema politico e istituzionale che si apre a fatica al rinnovamento; le debolezze del nostro apparato produttivo e dei nostri imprenditori; le tante occasioni che furono perse.
Oppure i cambiamenti nel mercato e nel commercio internazionale, che arrivano alla rivoluzione di oggi. La nuova dimensione dell’Unione Europea, la fine delle partecipazioni statali e dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, la nascita dell’euro e la fine della sovranità nazionale della moneta.
Dobbiamo però ricordare almeno qualcosa e penso sia giusto innanzitutto partire dal ruolo fondamentale che ha avuto in tutto questo quarto di secolo il sindacato unitario e la Cgil nel difendere le istituzioni democratiche contro ogni minaccia: le stragi, la strategia della tensione, il terrorismo; gli inquinamenti della vita democratica, le mafie.
Con Piazza Fontana comincia una stagione ininterrotta di stragi a cui rispondono mobilitazioni, proteste, scioperi, indignazione.
A Piazza della Loggia cadono lavoratori e lavoratrici della scuola, tanti nostri compagni, durante una manifestazione antifascista. E’ un uomo tenace, solitario e coraggioso, Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider, negli anni di piombo, con la sua denuncia ed il suo sacrificio a segnare la sconfitta del tentativo terroristico di infiltrarsi nelle fabbriche. E anche più recentemente è l’iniziativa dei sindacati che reagisce, isolandolo, al tentativo di fare ritornare quegli anni di piombo, quando vengo uccisi Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi.
Sono sempre Cgil, Cisl e Uil a Palermo in una giornata di fine giugno del 1992 a tenere la più grande manifestazione nazionale mai vista in Sicilia, dopo la morte di Falcone ed a qualche giorno dalla morte di Borsellino, in quelle le stragi in cui caddero tanti servitori dello Stato.
E siamo sempre noi a esporci, a batterci, giorno dopo giorno, lontano dai riflettori, per denunciare illegalità, prevaricazioni, intimidazioni. Sia quando lottiamo contro l’usura, contro il pizzo, contro gli appalti truccati, contro le aziende della mafia; sia quando – spesso da soli – denunciamo caporalato e lavoro nero, la presenza di immigrati trattati come schiavi moderni, senza volto, senza identità, senza alcun rispetto della condizione di esseri umani.
Quando – come spesso capita – una Camera del Lavoro che viene incendiata o oltraggiata, il nostro pensiero va e deve andare al coraggio di quanti, lì, in prima linea, non hanno paura e non si piegano. E ci viene per questo una domanda: cosa sarebbe l’Italia senza di noi, senza il sindacato, senza la forza morale di questi nostri compagni, e dei tanti amici delle altre organizzazioni sindacali che ogni giorno testimoniano.
Anche per questo la storia della Cgil, la storia di tutto il sindacato, non è la storia di una parte del paese, ma è la storia del paese, della sua democrazia, della sua libertà. E sta qui il grande lascito morale di Luciano Lama, per tutti noi e per il paese.
Il Centenario è stata anche l’occasione per parlare di noi e del nostro futuro. L’Italia di oggi è diversa. E’ un paese più ricco, con tanti problemi che nascono da una rivoluzione silenziosa avvenuta negli ultimi anni, con tanti lavori che sono cambiati e stili di vita e di consumi impensabili fino a trent’anni fa. Ma siamo anche un paese che mantiene grandi e profondi problemi. Alcuni storici, l’arretratezza di una parte del Mezzogiorno; altri sociali, le aree di povertà e di esclusione che crescono; altri di reddito, dove le ineguaglianze si sono accentuate a scapito del lavoro e dei redditi da pensione; altre legate alla imprevedibilità di un mercato diventato globale, ma senza regole, in cui la competitività ed i rischi vengono trasferiti dall’impresa al lavoro. Altri ancora attraversano il rapporto tra le generazioni, e per la prima volta il futuro dei giovani può essere meno pieno di opportunità e speranze che il passato. Altri infine riguardano la rivoluzione forse più forte e inattesa: il fatto che in poco più di una generazione da paese di emigranti siamo diventati paese di immigrazione.
Anche la Cgil di oggi è un sindacato in parte diverso. La sua identità e la sua appartenenza sono dettate dalla condivisione dei suoi valori di fondo e del programma che democraticamente e liberamente decide. Non ci sono più correnti di ispirazione politica, ma solo aree programmatiche. Le regole della vita interna garantiscono il suo pluralismo e l’efficacia delle sue decisioni.
Nei suoi iscritti – che ne fanno uno dei più grandi sindacati europei – si riflettono le trasformazioni del mercato del lavoro. Cresce il peso dei sindacati del terziario e dei servizi, il numero delle donne; i lavoratori precari ed i migranti. Accanto alle tradizionali forme rivendicative e di rappresentanza, si sviluppa il lavoro sui servizi, di tutela, di patronato. All’estero abbiamo rafforzato la nostra presenza. Tra gli anziani ed i pensionati costituiamo la rete sindacale più diffusa, la più grande in tutta Europa.
Ai nostri congressi partecipano e votano oltre un milione e cinquecentomila persone: la democrazia della nostra vita interna è un fattore di democrazia e partecipazione per l’intero paese.
E’ una Cgil forte – ed aggiungo unita – quella che oggi celebra il suo centenario.
Forte soprattutto della determinazione e della passione di milioni e milioni di persone che, ogni giorno, in tutto il paese, dai più piccoli comuni ai più grandi, in ogni posto di lavoro, ufficio, cantiere, scuola, fabbrica testimonia ed opera nel nome dei valori delle origini e degli obiettivi sindacali che insieme, liberamente e in autonomia, scegliamo e che vivono nel simbolo di un piccolo, ma per noi grande, quadrato rosso.
Proprio questo, però ci pone anche una grande responsabilità, come sempre.
La società in cui viviamo presenta problemi e contraddizioni sempre più forti, più grandi, spesso difficili da dirimere e superare. L’Italia continua ad attraversare un suo originale percorso, sempre in bilico fra declino e possibilità di farcela. Tra ricchezza e povertà, tra aree forti ed aree che sono rimaste indietro, tra egoismo e solidarietà, inclusione e separazione, tra meriti e bisogni, tra richiesta di istituzioni ordinate, forti, pienamente democratiche ed una infinita transizione istituzionale.
Chi poteva pensare che nell’Italia del nostro millennio la schiavitù di persone, quasi sempre immigrate, potesse vivere nel lavoro, in tante zone, in tante campagne, in tanti cantieri? O che di fronte a questo fenomeno si facesse finta di niente, da parte di tutti coloro che hanno responsabilità e potere per intervenire, lasciando soli quei nostri compagni che da anni si battono con coraggio e forza morale.
Quando in provincia di Foggia qualche mese fa hanno incendiato la Camera del Lavoro di Cerignola, quella di Di Vittorio, per un momento è sembrato di essere tornati indietro di un secolo, nell’Italia di allora. Ed è per questo che il 21 ottobre insieme torneremo a Foggia per una grande manifestazione contro lo schiavismo e per la libertà delle persone.
La verità è che nell’Italia di oggi il lavoro è insieme quello moderno, quello semimoderno e quello antico delle origini.
C’è il lavoro intellettuale, tipico delle società della conoscenza, ed il lavoro duro, spesso senza diritti e libertà di cantieri e campagne; c’è chi è sicuro della propria preparazione e competenza e chi vive di una precarietà senza fine, anno dopo anno; c’è chi va a lavorare a 16 anni, lasciando studi e formazione e chi neanche a 30 anni con una laurea riesce a trovare un lavoro, un’occupazione; c’è chi, più fortunato, cerca di restare al lavoro fino a 70 anni e chi a 50 anni è considerato dalle aziende un peso, una zavorra, una persona di cui fare a meno. Il fordismo del lavoro operaio e manuale in parte si è trasformato nelle attività di servizio, e quelle aziende industriali, un tempo considerate mature, sono oggi quelle che producono di più, mentre le aziende di servizio spesso vanno in crisi e sono in difficoltà. C’è chi lavora 48 ore e più alla settimana, e chi arriva appena alle 16 ore mettendo insieme tre o quattro lavori differenti.
Il quadro della condizione lavorativa dell’Italia del 2006 è un ritratto sempre meno omogeneo, con un risvolto prevalente di insicurezza che dalla dimensione globale dei mercati si trasmette dalle aziende ai lavoratori.
Riflettendo su questo – e sui fatti di Foggia – si rende necessaria una ricerca, un’inchiesta che abbia il respiro di altre inchieste importanti della nostra storia, per fornire un quadro più compiuto, più preciso della condizione del lavoro e dei suoi problemi.
Chiederemo formalmente, insieme con la Cisl e con la Uil, al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica di assumere questa iniziativa, della quale abbiamo già parlato con loro, trovando quel consenso che nasce dalla loro sensibilità e dalla storia personale, per segnare con questa scelta uno dei tratti distintivi della presente legislatura.
Sarebbe un gesto importante, anche per ridare centralità e riconoscibilità sociale alla condizione del lavoro di oggi.
Da troppo tempo, da troppe parti e per troppi interessi, si fa di tutto per relegare il lavoro ai margini della vita pubblica e della rappresentazione sociale.
Dalla fine della storia alla fine del lavoro, alla fine del sindacato il passo – per quanto arduo – nei fatti ogni tanto viene suggerito, e vive in tante modalità, in tanti richiami.
Vive ad esempio quando il lavoro di un migrante fonda una identità che esiste solo tutta all’interno di un luogo di lavoro, per scomparire ed essere negata, finito il lavoro. Vive quando si parla del lavoro pubblico come di una indistinta area di inefficienza, privilegio e fattore di costo. Vive quando il lavoratore diventa il collaboratore dell’imprenditore, quando una condizione, un problema diventa oggetto di attenzione solo quando uno sciopero ferma i servizi pubblici, oppure occupa strade e stazioni, quando gli incidenti e i morti sul lavoro non fanno notizia. O quando il lavoro – in qualsiasi delle sue forme di oggi – scompare dalla televisione, dalle inchieste giornalistiche. O quando sottovoce ci si spiega che il lavoro non fa audience. C’è molto che non va in questa situazione. E non è l’amarezza di chi invece vede un’altra realtà, un mondo capovolto di fronte a quello virtuale e immaginario. Ma una semplice, onesta e razionale considerazione.
Se il lavoro fonda ancora, in gran parte, identità, coscienza di sé e quindi dignità nella vita delle persone; se la condizione lavorativa di oggi è quella segnata da una complessità crescente, se senza i lavoratori comunque un paese non cresce e non si sviluppa, e non è pensabile nessuna attività manifatturiera, di servizio, di lavoro di cura, oppure di lavoro intellettuale: allora il lavoro deve ritornare ad essere centrale nelle politiche pubbliche, nelle scelte legislative, negli spazi culturali e delle rappresentazioni sociali.
Insieme ai contenuti e all’idea di una cittadinanza moderna, il lavoro fonda il riferimento essenziale di una politica e cultura riformatrice. Non contrapposto all’idea di impresa e di mercato, ma non subalterno alla sua centralità.
Per questo nel congresso di Rimini – partendo dalla straordinaria stagione che avevamo alle spalle di cui il 23 marzo rappresenta il momento più alto – abbiamo posto al paese, alle forze che si candidavano a governarlo, l’imperativo di un progetto nuovo per l’Italia che partisse dal lavoro, dalla sua centralità, dalla sua riconoscibilità, dai saperi, dai diritti. Perché sentivamo e sentiamo forte e anche pressante il bisogno di una bussola condivisa, di un orizzonte a cui guardare, di un sistema forte di riferimenti di fronte ai rischi, alle incertezze, ai pericoli che il paese, l’Europa ed il mondo attraversano. Un progetto capace di parlare all’economia, alla società ed al lavoro, a chi sta indietro, a chi non ce la fa ed ai tanti che, pur avendo talento, non pensano solo a sé.
Un progetto capace di far sentire meno sole le persone, e di non vivere sempre tutto come una perenne competizione che riduce uomini e donne a mezzi di produzione, e mai a quello che sono: delle persone. Un progetto in cui i diritti fondamentali lo siano davvero per tutti, e dovunque.
Un progetto dove – per questo – la guerra sia bandita, nel nome di una sicurezza che richiede accordi, compromessi politici, interposizioni umanitarie, reciprocità; dove il terrorismo non abbia cittadinanza alcuna, né alcuna giustificazione, dove ogni fondamentalismo venga prosciugato e reso marginale, dove si faccia di tutto per evitare ogni forma di guerra di civiltà, anche quando ci si confronta con culture che non hanno la nostra stessa e giusta idea dei diritti e di libertà delle persone.
La proposta di Rimini fu raccolta dalle forze e dallo schieramento che hanno vinto le elezioni e oggi hanno la responsabilità di guidare il governo del paese.
Non vogliamo, tanto più oggi, in questa occasione che è anche una celebrazione, parlare di temi come la legge Finanziaria, la precarietà del lavoro, le pensioni, la sanità, il Mezzogiorno, le risorse per i contratti pubblici e la scuola. Le cose di cui ci siamo occupati fino a ieri e di cui torneremo ad occuparci domani.
Ma due cose vogliamo e dobbiamo dirle. Esamineremo con calma lunedì pomeriggio nel corso di una segreteria unitaria il dettaglio della manovra, ma voglio dire da subito che sono rimasto molto colpito dal giudizio del centrodestra, dai toni usati e dalla arroganza delle parole; tutto è legittimo, meno dimenticarsi di quello che hanno fatto, di come hanno lasciato il paese. Perché se lasci senza risorse la scuola, le ferrovie, le poste, le politiche industriali, gli ammortizzatori sociali, le strade, i porti, a precarietà, i contratti pubblici, la condizione dei pensionati, le famiglie allora diventa non solo ingeneroso, ma troppo furbo pensare che gli altri possano fare qualcosa, partendo dai disastri compiuti. Trovo giusto e condivido il fatto che la finanziaria parta dalla redistribuzione dei redditi, scegliendo di ridurre l’area delle ingiustizie, partendo da chi in questi anni è rimasto indietro. Condivido l’impostazione politica della manovra. E chiedo al governo di non fare della lotta all’evasione la battaglia di un solo giorno, perché il vero tartassato non è chi evade le tasse, ma chi le paga.
La seconda è che di quel progetto – quello del congresso di Rimini – il paese ha bisogno. Ne hanno bisogno i lavoratori, i pensionati, soprattutto i giovani. Quelli a cui abbiamo dedicato assieme il nostro Congresso ed il senso di questo Centenario. Un paese che non guardi ai giovani è un paese che si chiude, che ha paura, che non investe sul proprio futuro.
E’ per i giovani che quel progetto non va abbandonato, non va lasciato cadere, non va contraddetto.
Non abbiamo vissuto e speso questa storia per tornare alle disuguaglianze del tempo delle origini. Non lo vogliamo. Non lo permetteremo. Non lo possono volere tutte quelle imprese che puntano sulla qualità e sull’innovazione per reggere la competizione in un mondo reso più incerto e difficile dalla globalizzazione dei mercati.
Lavoreremo – care compagne e cari compagni – perché il futuro abbia il cuore e la forza di questa storia, che è storia del paese, rinnovandola e riformandola, accettando le sfide, come sempre abbiamo fatto, quando la sfida ha avuto ed ha una posta importante.
Quello che ha alimentato una ragione di vita ed una ragione di appartenenza, per tanti, attraverso le generazioni, ci servirà per il cammino che ci aspetta.
Qui, oggi, a Milano, rinnoviamo lo stesso impegno di allora.
Ripartiamo con un nuovo inizio, orgogliosi della nostra storia e dei valori, che ne hanno segnato il percorso e ne accompagneranno il futuro, insieme con tanti altri al nostro fianco.
In questo modo la storia centenaria della Cgil e di tutto il sindacato continuerà a vivere davvero e sarà stata una storia spesa bene, per chi la volle e per il paese.
Una storia che con emozione e orgoglio – non inferiore a quello che provarono i delegati di quel congresso cento anni fa – consegniamo a tutti coloro che verranno. Perché questa storia gli appartiene, perché vogliamo che il futuro comune riparta da qui.


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