Carcere: verità  per Carlo, presunto suicida

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Nei mesi scorsi aveva avuto il coraggio di costituirsi parte civile contro 9 agenti di polizia penitenziaria accusati di abusi. I fatti risalgono al 2003, quando – secondo il pm – nell’istituto minorile leccese un gruppo di agenti avrebbe costruito una “squadretta” col compito di “governare l’istituto con la violenza”. Il Gup ha rinviato a giudizio i 9 poliziotti, ma il processo è in fase di stagnazione. E Carlo non ne potrà  vedere la fine. Ora la Procura barese ha aperto un provvedimento per sapere cosa davvero è accaduto in cella:la perizia eseguita dal medico legale ha stabilito che i segni intorno al collo di Carlo sarebbero compatibili sia con un salto nel vuoto che con un eventuale strangolamento da parte di altri.
Della storia di Carlo Saturno e della situazione dei penitenziari nel nostro Paese abbiamo parlato con Patrizio Gonnella (nella foto), presidente dell’associazione Antigone.

La storia di Carlo Saturno racconta la situazione di estrema gravità  del nostro sistema carcerario o dice anche qualcosa di più?
Questa vicenda è terribile sotto tanti aspetti. Quando ha subito le violenze che racconta, Carlo aveva solo 16 anni. Ha detto di essere stato seviziato, torturato, e malgrado ciò ha deciso di costituirsi parte civile: una cosa non comune, perché di norma i detenuti hanno paura di parlare, temono conseguenze, ritorsioni. Tra l’altro a denunciare questi soprusi non sono solo lui e altri carcerati, ma anche operatori che lavorano nel penitenziario di Lecce. Martedì, giorno in cui si sarebbe dovuta tenere l’udienza per le violenze perpetuate da questo gruppo di poliziotti rinviati a giudizio, il tribunale ha rimandato il processo, superando il tempo di prescrizione. Un fatto di una gravità  estrema, che mette in discussione legalità , dignità  della persona, habeas corpus, Stato di diritto. Parliamo da anni di processi brevi, prescrizioni brevi, occupandoci di colletti bianchi e di leggi ad personam, ma la realtà  è che la giustizia, a chi non ha mezzi, non viene garantita. Spero che un’indagine chiarirà  al più presto l’eventuale legame del gesto di Carlo con la fine del processo per il quale tanto si era battuto, resta comunque l’immensa gravità  di una prescrizione che lo uccide due volte. Sia chiaro: “Antigone” è garantista al massimo: i poliziotti potevano anche essere del tutto innocenti, ma perché non saperlo? Perché non celebrare quel processo? Possibile che in 8 anni non si sia arrivati a sentenza? 

Un problema di lentezza giudiziaria, quindi?
Peggio: a me pare che il sistema della giustizia sia ormai fallito del tutto. O, perlomeno, presenti processi di serie A e di serie B, come probabilmente veniva considerato quello per il quale Saturno si era costituito parte civile. Questo ragazzo ora è in fin di vita: non celebrare quel processo significa buttare via un’esistenza.  Come si può pensare, di fronte a un atto come questo, di avere ancora fiducia nella giustizia? Il caso di Carlo è paradigmatico: nella sua storia non ha funzionato niente. È finito in carcere quando era un ragazzino, per una storia di piccoli furti. Poi le violenze, il silenzio, e il coraggio di credere, malgrado tutto, nello Stato. Perché il suo costituirsi parte civile racconta esattamente questo: Carlo aveva fiducia nella giustizia. Quella stessa giustizia che oggi gli gira le spalle, che fa cadere in prescrizione il suo processo perché è passato troppo tempo. 

Negli istituti penitenziari italiani ci sono oggi 67.318 persone detenute, a fronte di una disponibilità  di posti pari a 45.059. Qual è la situazione negli altri Paesi dell’Unione?
Pur rimanendo, il nostro, uno dei Paesi con il maggior numero di persone detenute d’Europa, la situazione è variegata: ci sono casi paragonabili a quello italiano (la Francia, ad esempio, ha problemi quasi quanto noi), poi ci sono i Paesi scandinavi che stanno sperimentando pratiche più avanzate. La Norvegia, ad esempio, sta adottando una nuova procedura che rappresenta a mio parere un modello virtuoso da imitare. Si tratta della cosiddetta pratica delle “liste d’attesa”, che prevede, per i reati meno gravi, la possibilità  di non finire in carcere quando gli istituti penitenziari sono pieni, ma di…”attendere” il proprio turno, ovviamente sulla base di una serie di normative molto ristrette e rigide.  È chiaro che questa pratica garantisce carceri più “umane”, gestibili, a misura di persona detenuta. 

Ma come si spiega allora l’incremento “tutto italiano” del numero di persone detenute in Italia?
Droga e immigrazione: siamo nel Paese europeo che più incarcera per reati legati a questi due temi. Ciò accade perché su questi discorsi si è agito ideologicamente e molto poco pragmaticamente. Sono stati trattati come “materiale” sul quale costruire campagne elettorali, cercare consensi. Nessun coinvolgimento di esperti, nessuna seria riflessione: si è andati avanti per spot. I provvedimenti più recenti sulla droga e sull’immigrazione hanno fatto sì che due carcerati su tre, oggi, siano dentro perché hanno a che fare con queste leggi. Se si pensasse seriamente e definitivamente a un percorso serio di depenalizzazione dei reati, torneremmo ad avere carceri “normali”, controllate. Anche perché il 42% delle persone detenute sono oggi in custodia cautelare, in attesa di giudizio. I processi sono lentissimi, non arrivano mai a sentenza e la custodia diventa la pena.

Qual è la situazione delle misure alternative?
Calma piatta: non esistono, ad oggi, vere misure alternative. E questo accade perché ci sono divieti normativi (come la legge Cirielli che ha previsto lo stop di tali misure per i recidivi) che negano alla maggioranza delle persone detenute la possibilità  di trovare un diverso modo di scontare la pena. A ciò si aggiunge un aspetto che è ancora più grave: non ci sono risorse. Il terzo settore, dall’associazionismo, al sociale, alle comunità  terapeutiche, non ha più un soldo. I finanziamenti sono stati chiusi: nessuno è in grado, a queste condizioni, di accogliere persone per misure alternative. E così finiscono in carcere, uno sull’altro.

Spesso Antigone parla dell’urgenza di un “carcere trasparente”: cosa significa questa espressione?
Significa che fatti come quello di Carlo Saturno devono uscire dall’opacità  penitenziaria. Significa che storie come la sua devono poter essere osservabili e raccontabili all’esterno del carcere. “Carcere trasparente” vuol dire far sì che l’istituzione non sia complice, ma custode della legalità  penitenziaria e ciò implica che l’istituzione debba essere disponibile a venire osservata dall’esterno, perché l’osservazione già  di per sé condiziona il soggetto osservato. Non possiamo più permetterci di raccontare storie come quella di Carlo Saturno, coraggiosa parte civile in un procedimento per fatti che non si possono definire tortura solo a causa della mancanza di questo reato nel nostro codice penale.


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